

Opéra-cominque in due atti su libretto di Jean-Nicolas Bouilly. Kimi McLaren (Léonore), Jean-Michel Richer (Florestan), Tomislav Lavoie (Roc), Pascale Beaudin (Marceline), Dominique Côté (Pizare), Keven Geddes (Jacquino), Alexandre Sylvestre (Don Fernand). Choer er Orchestre de l’Opéra Lafayette, Ryan Brown (direttore), Oriol Tomas (regia, scene e costumi). Registrazione: New York 23 febbraio 2017. 1 DVD Naxos 2.110591
Pierre Gaveaux chi era costui? La domanda manzoniana potrebbe facilmente sorgere nella mente di qualunque appassionato di fronte al nome di questo compositore francese oggi praticamente sconosciuto. Eppure negli anni a cavallo tra la Rivoluzione francese e l’Impero napoleonico questo occitano trasferito a Parigi ha giocato un ruolo non secondario nella vita musicale della capitale francese. In primo luogo Gaveaux è stato fra i cantanti più apprezzati della sua generazione, nonostante la formazione abbastanza irregolare – destinato alla carriera ecclesiastica, dovette affiancare la preparazione teologico-letteraria a quella musicale – si fece apprezzare come tenore prima a Bordeaux e poi a Parigi dove ottenne la stima d’illustri compositore primo fra tutti Luigi Cherubini che lo volle come primo interprete prima del Floresky di “Lodoïska” (1791) poi del Jason di “Medée”(1797). A partire dal 1793 Gaveaux affiancò all’attività di cantante quella di compositore distinguendosi soprattutto come autore di opéra-cominque e facendo del nuovo Théâtre Feydeau – dove quell’anno la compagnia del Théâtre de Monsieur si trasferì dopo aver lasciato la precedente sede alle Tuilleries – il proprio regno nella triplice veste di autore, interprete e impresario. Gaveaux fu anche un intellettuale impegnato e politicamente attivo secondo un modello che andava affermandosi negli anni rivoluzionari. Favorevole alla Rivoluzione ma su posizioni moderate, critico degli eccessi del giacobinismo, nel 1795 compose l’inno “Le Réveil du peuple” in cui denunciava la stagione del Terrore e che godette di enorme fortuna tanto da contendere alla “Marsigliese” il ruolo di inno della nuova Francia Repubblicana. Il maggior successo del compositore fu “Léonore ou L’amour conjugal” su libretto di Jean-Nicolas Bouilly andata in scena nel 1798. L’opera ha già una sua rilevanza storica nel rappresentare il diretto precedente del “Fidelio” beethoveniano tratto dalla medesima piéce e sostanzialmente analogo come struttura. Ma l’opera non merita di essere conosciuta solo come primo tassello di una fortunata serie di titoli – oltre a Beethoven anche Paër e Mayr ne diedero una loro versione – ma in quanto meritevole in sé di giusta attenzione. In primo luogo una differenza essenziale è data dal contesto di nascita dell’opera: se il “Fidelio” è una grande riflessione sul valore universale della libertà quasi indipendente dal momento storico di creazione, l’opera di Gaveaux è strettamente legata alla realtà contingente, presentandosi quasi come il grido di liberazione dalla sanguinaria stagione appena conclusa. Musicalmente Gaveaux si dimostra un compositore perfettamente aggiornato, capace di muoversi fra linguaggi e stilemi differenti senza perdere un’unità di fondo. Se lo schema resta quello tradizionale dell’opéra comique – drammaturgia compresa, presenza di dialoghi parlati in luogo dei recitativi, arie lineari come struttura –, la ricchezza della scrittura e l’intensità drammatica di molti momenti superarono le costrizioni del genere. Nel corso della sua attività di cantante aveva infatti appreso a confrontarsi con stili diversi; al gusto leggero delle ariette tipiche dell’opéra-cominque – riviste però con una sensibilità melodica non comune nel genere – si affiancano la piena padronanza dei modi della tragedie lyrique com’era venuta definendosi da Gluck a Cherubini nonché almeno una generica conoscenza delle coeve esperienze italiane e tedesche, in primis della produzione matura di Mozart di cui sembrano scorgersi in qualche punto delle suggestioni. Le forme più proprie del genere rimangono riservate ai personaggi di carattere come Marceline, Jacquino e in parte Roc il cui linguaggio espressivo si avvicina sempre più a modi seri con lo svolgersi della vicenda. Di contro i ruoli seri di Léonore, Florestan – scritto da Gaveaux per se stesso – e Dom Fernand si esprimono con un linguaggio strettamente derivato dai modi della tragédie-lyrique seppur in parte semplificato. Questa ricchezza di stili si coniuga con un’ammirevole qualità di scrittura che connota Gaveaux tanto come raffinato orchestratore quando come melodista ispirato. In questo alto mestiere di fondo si leva in alcuni punti un colpo d’ala che li eleva a livello di alta ispirazione: l’intensa aria di Florestan che apre il II atto, lo splendido terzetto fra questi, Roc e Léonore colmo di intensa e commossa umanità e soprattutto lo splendido coro dei prigionieri che rappresenta il momento più alto dell’opera in modo quasi speculare a quanto accadrà nel futuro e immenso capolavoro beethoveniano.
A farci riscoprire questo interessante tassello della vita musicale francese di fine Settecento è l’Opéra Lafayette, piccola compagnia americana fondata nel 1995 a Washington poi con una sede distaccata anche a New York e specializzata nell’esecuzione del repertorio francese del XVII e XVIII secolo. Una compagine con mezzi limitati ma grande entusiasmo e accurata preparazione. Lo spettacolo firmato da Oriol Tomas è minimalista. La scena si riduce a pochi elementi che evocano grate e inferriate, i costumi richiamano l’epoca del libretto in forme più stilizzate. L’essenzialità dell’impianto scenico è ben sfruttata nel centrare lo sguardo sulle psicologie dei personaggi e sui rapporti che si creano fra di loro. Ryan Brown, fondatore della compagnia, guida l’orchestra con bel senso dello stile; la compagine strumentale si mostra di buon livello mentre più debole appare il fin troppo ridotto coro ed è un peccato essendo ad esso affidato il momento più alto dell’opera. Kimi McLaren (Léonore) e Jean-Michel Richer (Florestan) cantano con intensità e buone voci i due ruoli seri dell’opera; di buona presenza anche se un po’ troppo giovanile sia come timbro sia come figura il Roc di Tomislav Lavoie. Keven Geddes presta a Jacquino una piacevole voce da tenore di grazia mentre scenicamente spigliata ma poco brillante vocalmente la Marcelline di Pascale Beaudin. Alexandre Sylcestre è un funzionale Don Fernand mentre Dominique Côte affronta con la giusta energia il ruolo solo recitato di Pizare. I cantanti sono tutti canadesi – e in buon numero provenienti dal Quebec – il che garantisce un’impeccabile dizione francese tanto nel canto quanto nei lunghi dialoghi parlati.
Jesi, Teatro Pergolesi, Stagione 2019
“IL LATO NASCOSTO. CIRCOPERA LUNARE”
Circopera di Giacomo Costantini su libretto di Cristian Carrara
Musiche di Ludwig van Beethoven, Giacomo Puccini, Antonin Dvorak, Claude Debussy ed orginali, composte e ricomposte da Marco Attura
Jacopo PIERLUIGI COCCIOLITO
Ellen TIZIANA SALERNO
Miriam IRENE FRASCIONE
Bartolomeo FRANCESCO FUSAI
Circensi Giacomo Costantini, Philine Dahlmann, Edoardo Demontis, Salvatore Frasca, German Caro Larsen, Gael Man, Cecilia Alice Manfrini, Giacomo Martini.
Time Machine Ensemble
Direttore Marco Attura
Scrittura scenica e regia Giacomo Costantini
Scene Benito Leonori, Elisabetta Salvatori
Costumi Roberta Fratini
Video Mario Spinaci
Luci Marco Scattolini
Vocal coach Shawna Farrell
Nuova Commissione Fondazione Pergolesi Spontini in collaborazione con Circo El Grito e Bernstein School of Musical Theater
Prima rappresentazione assoluta
Jesi, 24 novembre 2019
Continua la stagione lirica al Pergolesi di Jesi e ritorna Il Circopera Lunare in collaborazione con El Grito, dopo il successo dello scorso anno con il Circo Rossini. Un nuovo spettacolo per la fondazione Pergolesi Spontini con la regia di Giacomo Costantini e il libretto di Cristian Carrara, costruito da due prologhi e da dodici scene. Lo spettacolo nasce dalla ricorrenza di due eventi importanti: I cinquecento anni della morte di Leonardo Da Vinci e i cinquant’anni dello sbarco sulla Luna.Questi due eventi fanno da prologhi lunari alla storia: Infatti il 1 maggio 1519 Leonardo Da Vinci riesce a decollare con una delle sue macchine volanti e ad oltrepassare l’atmosfera terrestre, riuscendo a posare il veicolo sul lato nascosto del nostro satellite naturale, al centro del Mare Orientale, che si estende in parte sul lato visibile della luna e in parte su quello nascosto e il 20 luglio 1969 Amstrong e Aldin raggiungono la luna, issando la bandiera e lasciando un messaggio di pace, nonostante qualche anno prima la United States Air Force aveva elaborato un progetto chiamato A119 che prevedeva l’esplosione di una bomba nucleare sulla Luna. Esattamente cinquant’anni dopo Jacopo ed Ellen oltrepassano la zona rossa ( lato visibile della luna), finendo nella zona dell’allunaggio dell’Apollo 11 dove trovano i documenti del progetto d’esplosione.
Nel frattempo la missione aerospaziale cinese “ Chang’e 4” va a buon fine e un Lander che comunica sulla terra, si posa sul lato nascosto della terra. A bordo del Del Lander è salito Yang , un Darksider, che ha deciso di rischiare la vita per avvertire i lunari di mettersi in salvo dall’esplosione.Yang viene catturato da Jacopo, che insieme ad Ellen decidono di chiedere consiglio a Bartolomeo e Miriam che suggeriscono di interpellare i tre saggi lunari.Dopo il susseguirsi dei tre oracoli, Jacopo intuisce che deve tornare da Yang, per capire la soluzione giusta. Yang comunica degli esperimenti che stanno facendo e che uno di loro può andare sulla terra con il suo Lander.
A questo punto Jacopo propone che sia Ellen, che in grembo porta suo figlio, a tornare sulla terra, con l’intenzione di salvare la città lunare.Uno spettacolo ben curato a cominciare dalle ottime scene di Benito Leonori ed Elisabetta Salvatori, alle efficaci luci di Marco Scattolini e i video di Mario Spinaci, ai costumi scintillanti di Roberta Fratini. Interessanti le qualità vocali lirico-pop dei quattro protagonisti, dotate di una bella musicalità, oltre che di una buona recitazione. Dal punto di vista musicale, Marco Attura dirige con passione il Time Machine Ensemble. In una nuova veste ascoltiamo melodie tardo romantiche, con una parafrasi dei due “chiari di luna”, quello di Beethoven e quello di Debussy. Oltre ad un sognante duetto sul tema “Inno alla Luna” di Dvorak e un refrain ispirato alla romanza “ E lucevan le stelle” di Puccini.
I componenti del Circo El Grito hanno creato una certa magia con i loro numeri acrobatici. Degno di menzione il finale poetico con la bravissima Cecilia Alice Manfrini. Particolarmente apprezzata l’idea della diretta televisiva, ambientata a Jesi , con il coinvolgimento di alcuni personaggi locali, che ha regalato qualche sorriso in sala. Giacomo Costantini con questo esperimento di teatro musicale e circo contemporaneo, è riuscito a mandare anche un messaggio forte, toccando temi quanto mai attuali nel mondo di oggi. Una critica vero una società che si permette di fare esperimenti atomici sulla luna, che inquina e distrugge il nostro pianeta. Lo spettacolo è stato salutato da applausi calorosi.
Bergamo, Cantiere del Teatro Donizetti, Festival Donizetti Opera 2019
“L’ANGE DE NISIDA”
Opera in quattro atti di Alphonse Royer e Gustave Vaëz
Musica Gaetano Donizetti
Edizione a cura di Candida Mantica
Don Fernand d’Aragon FLORIAN SEMPEY
Don Gaspar ROBERTO LORENZI
Leone de Casaldi KONU KIM
La comtesse Sylvia de Linarès LIDIA FRIDMAN
Le Moine FEDERICO BENETTI
Orchestra e Coro Donizetti Opera
Direttore Jean-Luc Tingaud
Maestro del Coro Fabio Tartari
Regia Francesco Micheli
Scene Angelo Sala
Costumi Margherita Bodoni
Luci Alessandro Andreoli
Nuovo allestimento e produzione della Fondazione Teatro Donizetti di Bergamo
Bergamo, 21 novembre 2019
Niente tappeti, velluti o tendaggi; niente porte ai palchi o poltrone in platea; niente palcoscenico (trasformato in tribuna per il pubblico); al contrario, un’orchestra che guarda al centro della sala anziché verso il boccascena. L’effetto straniante che suscita l’ingresso al Cantiere del Teatro Donizetti di Bergamo è addolcito dalla straordinaria gentilezza con cui il personale, le maschere, gli uomini addetti alla sicurezza guidano l’incerto melomane tra cortine e barricate, corridoi non ancora stuccati e stanze di servizio prive di intonaco. L’antica casa sta per rinascere dopo una fase di importanti restauri, e già accoglie una nascita, con la prima versione scenica dell’Ange de Nisida, a 180 anni dalla sua composizione. Il Festival Donizetti Opera continua a stupire per la capacità di congiungere la vita e l’opera del compositore con le circostanze attuali della sua fortuna, le ragioni della sua vitalità e il gusto del pubblico di oggi, per di più con uno stile privo di cedimenti celebrativi o meramente documentativi. Al contrario, la filologia più attenta e la creatività più raffinata si sposano per dar vita scenica a un’opera del Donizetti maturo e parigino, mai rappresentata a causa del fallimento della committenza, quel Théâtre de la Renaissance che chiuse nel maggio 1840 a causa di una malaccorta gestione finanziaria («jettava denare da tutte le parti», come scrisse lo stesso Donizetti). Riscoprirla oggi, grazie al paziente lavoro di ricostruzione di Candida Mantica sulle fonti originali, permette di ritrovare il contesto originale di motivi e disegni che Donizetti avrebbe poi reimpiegato in Don Pasquale e Maria Stuarda, ma soprattutto in Favorite, di cui L’ange sia per il libretto sia per la musica rappresenta la costante filigrana.
Non è soltanto una metafora: molte pagine manoscritte dell’Ange furono usate per confezionare la partitura autografa della Favorite, come in un palinsesto medioevale in cui la scrittura inferiore lascia intravvedere un testo più antico e sconosciuto. Inoltre, in sette numeri dell’Ange si ritrovano musiche che Donizetti aveva composto per l’opera semiseria Adelaide, abbozzata già nel 1834 ma poi lasciata incompleta. Pertanto, sin dalla prima scena l’effetto sonoro è quello di un juke-box donizettiano, che anticipa titoli a venire e in forma pienamente sviluppata. Sotto lo sguardo vigilante e benevolo di un busto di Donizetti posto sul proscenio, l’Orchestra che reca il suo nome dipana una musica nuova eppure nota, che il direttore Jean-Luc Tingaud concerta molto bene, rilevando le finezze della strumentazione. La compagnia cantante, formata da un gruppo di giovani entusiasti e ottimamente preparati, si confronta con due tipi di difficoltà: la qualità dell’opera, che abbonda in richieste virtuosistiche, e l’assenza di tradizione (giacché esiste soltanto una versione discografica della prima esecuzione assoluta, in forma di concerto, avvenuta alla Royal Opera House di Londra nel luglio 2018).
Lidia Fridman incarna assai bene il carattere della protagonista, umile e dimessa, per certi aspetti priva di dignità (ancora molto lontana dalla Leonor de Guzmán che ispirerà Favorite). Il timbro piuttosto scuro si adatta alla tessitura, con una linea di canto pregevole nel registro centrale; sebbene il soprano non riesca sempre a rifinire il fraseggio e a volte manchi di espressività, si disimpegna in modo soddisfacente nella grande aria solistica del III atto, «Frais ombrage! Ile embaumée», sfogo di tutta l’umiliazione che è costretta a subire. Konu Kim è Leone, il giovane innamorato di Sylvia e trasformato nello zimbello della corte (come il Fernando della Favorita): volume e fiati poderosi bilanciano la scarsità di armonici, anche se un fraseggio e un porgere eccessivamente drammatici non sembrano la scelta più pertinente. Kim, in effetti, tende ad esagerare nell’emissione forte, forse per timore che la voce si disperda o semplicemente per dimostrare le proprie capacità. Azzarda puntature, a voce piena o mezza, nell’aria finale del IV atto (ma la musica non è quella di «Spirto gentil»: è un’aria con corni obbligati dal carattere meno sognante). Molto corretto il baritono Florian Sempey nella parte del re d’Aragona.
Ben proiettata, anche se non sempre appoggiata con la necessaria fermezza, la voce del basso Roberto Lorenzi nel ruolo semiserio di Don Gaspar: a lui competono la scena corale dell’apertura (che mescola le funzioni di «Largo al factotum» con qualche citazione da Don Magnifico e soprattutto preannuncia Don Pasquale) e parecchi interventi giocati sulla grettezza e anche sul grandguignol (come nelle scene II viii, in cui propone a Sylvia di sposare Leone per togliere d’impaccio il re, o in III i, in cui dice al re che vorrebbe annullare tutto). Non sempre controllata l’intonazione del basso Federico Benetti nel ruolo del monaco (il personaggio che diventerà Baldassarre).
Magnifico il lavoro svolto dal Coro Donizetti Opera preparato da Fabio Tartari. Lo spettacolo firmato da Francesco Micheli, direttore artistico del festival, è al tempo stesso semplice ed elaborato, in ogni caso molto felice in tutte le sue soluzioni. L’utilizzo dell’intera platea del teatro, sgombra dalle poltrone, offre all’azione un respiro di plein aire che si giova della recitazione, della videoproiezione e delle luci quali uniche forme di costruzione; non vi è altro elemento scenografico, perché l’eccezionale spazio è più che sufficiente. Nella prima parte (corrispondente ai primi due atti) il coro interviene dall’alto del loggione, lanciando le pagine manoscritte della partitura che si credeva perduta, mentre nella seconda parte scende in platea e gioca ancora un ruolo fondamentale.
Anche il pavimento è tutto cosparso di fogli di composizione dell’Ange, che gli interpreti raccolgono e ripassano, come per rimarcare la trasformazione (finalmente!) della musica da testo scritto ad arte rappresentata e viva. Il pubblico apprezza moltissimo l’originale progettualità e la sfida di sperimentazione che caratterizza tutta la produzione. Micheli esalta la connotazione geografica del libretto, ossia l’isola di Nisida quale luogo dei primi tre atti, nell’accezione di spazio da cui è impossibile fuggire per Sylvia, lì relegata quale oggetto di piacere del re. Quello della corte aragonese di Ferdinando I è uno splendore apparente, incapace di mascherare l’ipocrisia e il cinismo; ecco perché i costumi più sfarzosi (a firma di Margherita Baldoni) sono di carta, pronti a essere stracciati nei momenti di ribellione e denuncia della verità.
Del resto, l’atteggiamento che Micheli più rimarca è il sadismo nei confronti di Sylvia e Leone: quattro sgherri del sovrano hanno la funzione di provocarli, schernirli e oltraggiarli, esasperandone la resistenza e trasformandoli in martiri. È una soluzione decisamente condivisibile, perché fa risaltare l’ambientazione unitaria e opprimente dell’Ange, differenziandola da quella molto più articolata, ariosa ed elegante di Favorite. Se il dolore prevale fin dall’inizio, alla fine dell’opera l’ange della bellezza muore ed è contornata da due ampie ali, già trasformata in angelo del paradiso. Foto Gianfranco Rota © Festival Donizetti Opera
Pavia, Teatro Fraschini, Stagione d’Opera 2019-2020
“AIDA”
Opera in quattro atti su libretto di Antonio Ghislanzoni, da un soggetto di Auguste Mariette.
Musica di Giuseppe Verdi
Il Re FANCESCO MILANESE
Amneris CRISTINA MELIS
Aida MARIA TERESA LEVA
Radamès SAMUELE SIMONCINI
Ramfis FABRIZIO BEGGI
Amonasro LEON KIM
Un messaggero ALESSANDRO MUNDULA
La gran sacerdotessa TERESA DI BARI
Orchestra I pomeriggi musicali di Milano
Coro OperaLombardia
Direttore Francesco Cilluffo
Direttore del Coro Dario Maccagnola
Regia e Scene Franco Zeffirelli riprese da Stefano Trespidi
Costumi Anna Anni ripresi da Lorena Marin
Luci Fiammetta Baldiserri
Coreografie Luc Bouy
Coproduzione Teatri di OperaLombardia
Pavia, 23 novembre 2019
L’“Aidina piccola piccola”, che Franco Zeffirelli congegnò per il Teatro Verdi di Busseto diciotto anni fa, approda al circuito operistico lombardo praticamente intatta: quest’opera di conservazione perfetta (il cui merito va a Stefano Trespidi e Lorena Marin) oggi porta ad apprezzare la produzione più che allora. Oggi, infatti, il gusto equilibrato e didascalico zeffirelliano assume un che di oleografico, quasi commovente passatismo, con le sue scene che non temono il dato di realtà nella loro immaginifica realizzazione. Oggi, abituati a proiezioni, effetti speciali e ardite scelte registiche (talvolta prive di una vera ragione drammaturgica), la rassicurante scena zeffirelliana sembra davvero la proiezione di una lanterna magica, una bomboniera di legno nella quale si muovono personaggi da cartolina, stilizzati come silhouette, ma coperti d’oro, tra vapori d’incenso, con un gusto in bilico tra lo Jugendstil e il kitsch. Anche la regia ha qualcosa di irresistibilmente mélo, che ricorda certi peplum Anni Cinquanta, più che l’esasperato naturalismo contemporaneo: non crediamo un secondo ai personaggi, ma non è necessario che siano credibili in un simile contesto, anzi, più sono anch’essi eccessivi e più appagano la nostra sete d’altri tempi. In tal senso il cast avrebbe potuto, in effetti, lasciar cadere qualche inibizione in più, data la rarissima occasione – giacchè, beninteso, altrove sarebbe peccato mortale abbandonarsi al caricaturale, ma in un contesto simile è più che appropriato fingere caratterizzazioni monodimensionali, per sottolinearne la natura superbamente decorativa. I costumi di Anna Anni e Lorena Marin – esagerati anche quando fingono minimalismo (ad esempio quello di Radamès nel III atto) – e le luci di Fiammetta Baldiserri – calligrafiche e contrastate al punto giusto – incorniciano il gioiellino zeffirelliano, rendendolo quasi un’epitome vivissima di ciò che la regia d’opera fu, e oggi non può più essere. La compagine canora, in ogni caso, forse ispirata dalla sottile opulenza che la circondava, ha saputo assestarsi su un livello alto e di sapiente misura.
Su tutti svetta prevedibilmente la morbida e attentissima Aida di Maria Teresa Leva, vero talento del nostro parterre nazionale: non teme la prova scenica, curata nelle posture e negli sguardi; sfodera centri pieni, acuti splendidamente proiettati, ricchi di armonici caldi. Lo scoglio di “Cieli azzurri” è superato con classe, apprezzabili messe di voce, fraseggio appassionato. Samuele Simoncini, accanto a lei, è un Radamès ben rodato, che anche in altri contesti ha dimostrato la sua adesione vocale al ruolo: si distingue sempre per l’ottima dizione, il fraseggio misurato, l’intelligenza musicale che gli permette di adattarsi sia ai momenti d’azione che a quelli di maggiore abbandono lirico. Ottima prova anche quella del mezzosoprano Cristina Melis (Amneris), ben a fuoco sia nella zona grave che in quella acuta: il ruolo è dominato da un temperamento aggressivo ma anche seducente, la voce è ricca nelle sonorità; il fraseggio, tuttavia, è certamente perfettibile, affinché si mostri più variato, e soprattutto più sfumato in alcuni passaggi – ad esempio nel duetto con Aida.
Anche Leon Kim è all’altezza del ruolo di Amonasro, per quanto scenicamente meno spontaneo: pregevolissimo nel duetto con Aida, nel quale apprezziamo una bella linea di canto. Solido e autorevole il Ramfis di Fabrizio Beggi. Corrette le prove di Francesco Milanese (il Re), Alessandro Mundula (il messaggero) e Teresa di Bari (la gran sacerdotessa). L’apporto che il coro di OperaLombardia dà a questa produzione è senz’altro tra i migliori che si possano desiderare in un contesto di ridotte dimensioni: sia il coinvolgimento scenico che la compattezza e l’eufonia di questa formazione sono ormai considerabili una garanzia, e dimostrano di sapersi arricchire ad ogni nuova sfida – un plauso all’attenta direzione del maestro Dario Maccagnola. Infine, la direzione d’orchestra del maestro Francesco Cilluffo sa mantenersi in equilibrio tra languore e dinamismo, incarnando perfettamente lo spirito “epico da camera” che Franco Zeffirelli voleva si effondesse dalla sua scena. La sintonia tra buca e palco è quasi sempre perfetta e i suoni dell’orchestra ben omogenei. Il pubblico pavese – molto presente, nonostante il maltempo da settimane si accanisca sulla città – gradisce apertamente, riservando i più calorosi riconoscimenti ai due protagonisti. Le rappresentazioni di questo spettacolo continuerà nelle prossime settimane al Teatro di Como, poi al Teatro Grande di Brescia, per terminare al Sociale di Bergamo.
Va in scena al Teatro Comunale Luciano Pavarotti di Modena il 27 e il 29 novembre 2019 alle 20 e domenica 1° dicembre alle 15.30 Rigoletto, uno dei titoli più amati del grande repertorio verdiano, presentato in coproduzione con il Teatro Comunale di Ferrara e il Teatro del Giglio. Lo spettacolo si vedrà in un nuovo allestimento costruito dal teatro di Modena per la regia di Fabio Sparvoli. Nel ruolo del titolo canterà il baritono Marco Caria. Il tenore Marco Ciaponi sarà il Duca di Mantova mentre Ramaz Chikviladze sarà Sparafucile. Nei principali ruoli femminili si ascolteranno Daniela Cappiello e Letizia Bertoldi nella parte di Gilda e la Maddalena di Antonella Colaianni. Sul podio David Crescenzi, anche alla guida dell’Orchestra Filarmonica Italiana e del Coro Lirico di Modena preparato da Stefano Colò. Insieme a La bohème, vista a Modena in novembre, Rigoletto viene presentato nell’ambito delle celebrazioni dedicate a Luciano Pavarotti, in un progetto promosso da Modena Città del Belcanto che prevede la rappresentazione delle opere liriche interpretate dal tenore in ordine di debutto.
Bergamo, Teatro Sociale, Festival Donizetti Opera 2019
“LUCREZIA BORGIA”
Opera seria in un prologo e due atti di Felice Romani
Musica Gaetano Donizetti
Edizione critica a cura di Roger Parker e Rosie Ward
Don Alfonso MARKO MIMICA
Donna Lucrezia Borgia CARMELA REMIGIO
Gennaro XABIER ANDUAGA
Maffio Orsini VARDUHI ABRAHAMYAN
Jeppo Liverotto MANUEL PIERATTELLI
Don Apostolo Gazella ALEX MARTINI
Ascanio Petrucci ROBERTO MAIETTA
Oloferno Vitellozzo DANIELE LETTIERI
Gubetta ROCCO CAVALLUZZI
Rustighello EDOARDO MILLETTI
Astolfo FEDERICO BENETTI
Un usciere CLAUDIO CORRADI
Un coppiere ALESSANDRO YAGUE
La principessa Negroni FRANCESCA VERGA
Orchestra Giovanile Luigi Cherubini
Banda di palcoscenico del Conservatorio Gaetano Donizetti di Bergamo
Coro del Teatro Municipale di Piacenza
Direttore Riccardo Frizza
Maestro del Coro Corrado Casati
Regia Andrea Bernard
Scene Alberto Beltrame
Costumi Elena Beccaro
Luci Marco Alba
Coreografia Marta Negrini
Nuovo allestimento della Fondazione Teatro Donizetti di Bergamo in coproduzione con la Fondazione Teatri di Reggio Emilia, la Fondazione Teatri di Piacenza, la Fondazione Ravenna Manifestazioni e la Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste
Bergamo, 22 novembre 2019
Un elemento scenico si abbassa verticalmente e spezza la culla vuota di un bambino rapito; anche la memoria della tragedia va in frantumi (quasi una citazione strehleriana: il sipario di ferro che distrugge il carretto dei Giganti della montagna), con i segni della violenza che restano a lungo visibili. La Lucrezia Borgia che il festival Donizetti Opera propone al Teatro Sociale di Bergamo è uno spettacolo velato di oscurità e marcato dalla violenza. Il giovane regista Andrea Bernard non ha voluto inserire alcuna suggestione rinascimentale, ma ha preferito ricostruire un incubo di colpevolezza per la protagonista. In effetti, già Felice Romani parlava della «nerezza del soggetto», rendendosi conto di «quanto scabrosa fosse l’impresa» di ridurre a melodramma italiano la tragedia francese di Victor Hugo. È singolare come tutti gli inconvenienti che l’opera dovette affrontare nel corso della sua tormentata storia esecutiva, dovuti alla censura, al gusto del pubblico, alle riprovazioni di critici e recensori, oggi si traducano in altrettanti problemi filologici; l’edizione critica appena ultimata da Roger Parker e Rosie Ward dà conto infatti dell’esistenza di nove versioni in cui Donizetti intervenne per modificare l’opera tra 1836 e 1842, dopo la prima scaligera del 1833. Sostituzioni, tagli, accorciamenti e numeri nuovi; e poi versioni francesi e cambi di titolo (Eustorgia da Romano, Elisa da Fosco, La rinnegata: tutti travestimenti di Lucrezia Borgia al fine di evitare i rifiuti della censura). Di fronte a una restituzione critica tanto ricca di varianti d’autore, il direttore Riccardo Frizza ha optato non per una versione in particolare, bensì per un assemblaggio di due: la prima milanese del 1833 e quella preparata per il Théâtre Italien di Parigi nel 1840.
Così, nel prologo la seconda strofe del cantabile di Lucrezia è sostituita con la cabaletta «Si voli il primo a cogliere»; nel finale I si adotta la nuova versione della cabaletta del duetto tra Lucrezia e Don Alfonso «Oh! a te bada», scritta a Firenze nel 1836; è conservato il duetto tra Orsini e Gennaro del II atto (n. 7 della partitura), ma anche la romanza sostitutiva scritta per Mario, «Anch’io provai le tenere»; nel finale dell’opera il soprano canta soltanto una strofe della cabaletta, secondo quanto Donizetti propose a Luigia Boccabadati nella ripresa fiorentina del 1836. Dal momento che è impossibile ricostruire quale sarebbe stata l’ultima versione licenziata dall’autore, ogni scelta compiuta sulle fonti appare legittima; tuttavia, non è lo stesso optare per la versione ridotta della cabaletta finale (omessa nella ripresa scaligera del 1840, nella versione francese di Metz e nella ripresa romana dell’anno dopo) o porre in successione l’aria composta per sostituire il duetto del n. 7 e il duetto stesso. In questo secondo caso, va ricordato che nessuna delle nove edizioni a cui prese parte il compositore contemplava la presenza di entrambi i numeri, per il semplice fatto che il più recente era nato per rimpiazzare l’altro; sul piano drammaturgico e musicale l’accostamento riesce più che plausibile, mentre su quello storico rasenta l’incongruenza (forse per questo, nel programma di sala si parla a p. 49 di «ricostruire le varie versioni storiche, o immaginarne altre come in questa occasione»?).
Riccardo Frizza asseconda molto i cantanti nei momenti solistici, anche con tempi piuttosto rilassati, in una prima rappresentazione che avrebbe meritato qualche prova in più. Nel corso del prologo serpeggia un po’ di nervosismo da première, sia nell’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini sia nei cantanti (mentre sono perfetti gli interventi della Banda del Conservatorio sul palco); poi l’atmosfera si distende e ogni artista riesce a qualificarsi positivamente, come dimostra il completo apprezzamento del pubblico alla fine. Carmela Remigio torna a Bergamo dopo un anno – nel 2018 fu una splendida Amelia nel Castello di Kenilworth – per interpretare un personaggio vocalmente e scenicamente difficile come Lucrezia. Il soprano affronta con sicurezza i punti più drammatici della parte, anche se la voce appare un po’ leggera rispetto alle richieste; a volte è costretta a semplificare l’emissione nelle agilità o a ricorrere all’inflessione parlata.
Xabier Anduaga è un Gennaro squillante, dal timbro di delicato tenore rossiniano (anch’egli l’anno scorso fu molto apprezzato nel Castello di Kenilworth). Qualche piccolo difetto di dizione pregiudica il fraseggio, così come la linea di canto in alcune frasi discendenti pregiudica l’intonazione; comunque, nell’aria del II atto Anduaga dà il meglio di sé, soprattutto grazie alle mezze voci. Nella parte di Maffio Orsini il contralto Varduhi Abrahamyan non soddisfa pienamente le aspettative: dopo il ragguardevole Arsace nella Semiramide di Pesaro della scorsa estate, ora l’emissione si sente più affaticata, come ostacolata nella fluidità e peggiorata nella pronuncia; si risolleva però nel celebre brindisi del II atto.
Ha un timbro molto bello il basso Marko Mimica, nella parte di Don Alfonso, e con la presenza scenica incarna perfettamente il personaggio antagonista, bramoso di vendetta. Tra i molti personaggi minori occorre segnalare il Rustighello di Edoardo Milletti, molto preciso nel porgere, e l’Astolfo di Federico Benetti (più a suo agio rispetto all’Ange de Nisida). Anche tutti gli altri comprimari hanno dimostrato grande professionalità, specialmente nei momenti d’insieme, in cui risalta il lavoro impeccabile di Corrado Casati, che ha preparato il Coro del Teatro Municipale di Piacenza. Il numero musicale più convincente è senza dubbio il terzetto del I atto con soprano, tenore e basso impegnati a difendere i propri sentimenti più istintivi: l’onore del giovane ribelle, la gelosia del marito oltraggiato, l’ansia di una madre che teme di perdere il figlio.
In pratica sono le emozioni attorno alle quali si sviluppa tutto lo spettacolo di Andrea Bernard, in un susseguirsi di presenze animalesche e mostruose, un universo maschile e nereggiante in cui spicca, come macchia vivida e nemica di tutti, il vaporoso abito giallo di Lucrezia. Molto accurati i costumi di Elena Beccaro, funzionali alla resa di una dark age dominata dallo stupro e dalla volgarità. Rispetto a questo clima stride il cartiglio proiettato durante il preludio iniziale, una preziosa citazione letteraria della Didaché (II 2), di cui la storia a seguire costituisce l’esatto opposto: «Non ucciderai, non commetterai adulterio, non fornicherai, … non praticherai la magia, non userai veleni, non farai morire il figlio per l’aborto né lo ucciderai appena nato». Foto Gianfranco Rota © Festival Donizetti Opera
Bergamo, Teatro Sociale, Festival Donizetti Opera 2019
“PIETRO IL GRANDE KZAR DELLE RUSSIE”
Melodramma burlesco di Gherardo Bevilacqua Aldobrandini
Musica Gaetano Donizetti
Edizione critica a cura di Maria Chiara Bertieri
Pietro il Grande ROBERTO DE CANDIA
Caterina LORIANA CASTELLANO
Madama Fritz PAOLA GARDINA
Annetta Mazepa NINA SOLODOVNIKOVA
Carlo Scavronski FRANCISCO BRITO
Ser Cuccupis MARCO FILIPPO ROMANO
Firman–Trombest TOMMASO BAREA
Hondedisky MARCELLO NARDIS
Notaio STEFANO GENTILI
Orchestra Gli Originali
Coro Donizetti Opera
Direttore Rinaldo Alessandrini
Maestro del Coro FabioTartari
Regia, macchinari e scene Ondadurto Teatro – Marco Paciotti, Lorenzo Pasquali
Costumi K.B. Project
Luci Marco Alba
Nuovo allestimento e produzione della Fondazione Teatro Donizetti di Bergamo
Bergamo, 23 novembre 2019
Pietro il Grande è lo spettacolo più divertente, accurato e coerente di tutto il festival Donizetti Opera 2019: bene diretto e cantato e recitato, è tradotto in termini visivi con molta intelligenza e vivacità. A volte occorre attendere anni, ma alla fine è possibile assistere a un’opera comica (anzi, «melodramma burlesco», come volle chiamarlo Donizetti) senza volgarità gratuite o indebite sovrapposizioni. L’entusiasmo dimostrato dal pubblico conferma l’impressione di essersi imbattuti in un piccolo capolavoro di unità stilistica. Conosciuto anche con titolo alternativo Il falegname di Livonia, Pietro il grande kzar delle Russie fu rappresentato il 26 dicembre 1819 al Teatro di San Samuele di Venezia, quando Donizetti aveva appena compiuto ventidue anni e soltanto da uno praticava il teatro musicale. A due secoli esatti di distanza può dunque scattare il congegno #Donizetti200, progetto tanto semplice quanto geniale, che consiste nel recupero delle opere donizettiane a duecento anni dalla loro prima rappresentazione. Il ventenne Donizetti portò a Venezia molte suggestioni della Gazza ladra, andata in scena alla Scala nella primavera del 1817: il rullare del tamburo militare nella sinfonia ne è solo la prima citazione, ma poi tutta l’opera si sviluppa come vicenda parallela (assai meno cupa) a quella di Ninetta. Grazie allo spiritosissimo libretto del marchese Gherardo Bevilacqua Aldobrandini si apprezza la storia del falegname Carlo, orfano ma in realtà fratello della zarina, che Pietro il Grande identifica e accoglie nella sua famiglia, consentendo che sposi la fanciulla che ama, sebbene figlia di un nemico della patria.
Il nerbo comico del libretto e della musica è nel magistrato del villaggio, Ser Cuccupis, l’equivalente del Podestà della Gazza ladra, ma molto più spassoso: opportunista e servile, nella sua inettitudine non capisce mai nulla di quanto sta accadendo, però si compiace di esprimersi con un gergo giuridico astruso, citazioni classiche e brocardi medioevali. In realtà, anche altri personaggi sono fortemente caratterizzati sul piano linguistico, come Madama Fritz, la locandiera filantropa innamorata di Carlo, che parla con gli stilemi del melodramma tragico, o il Coro del tribunale, che cita Metastasio per stravolgerlo («Siam navi all’onde algenti […] tutta la vita è Curia», in cui l’aria dell’Olimpiade si trasforma in rassegnazione al garbuglio legale). Il sestetto del II atto, successivo al disvelamento dell’identità di Annetta («Oh! colpo! ohimè! qual fremito»), dà forma alla tipica scena di stupore, ma oltre alle movenze rossiniane è interessante notare l’originalità con cui Donizetti dipana e articola le sezioni.
Insomma, accanto a molto Rossini e Mozart si percepisce un influsso distinto (il maestro Mayr) che presto avrebbe condotto Donizetti a un percorso di piena autonomia. Rinaldo Alessandrini, alla guida del complesso Gli Originali (quasi un titolo donizettiano …) è come sempre vigoroso e cristallino; lo spettatore si accorge di come i cantanti si sentano a loro agio e possano dare il meglio di sé. A cominciare naturalmente da Roberto De Candia, interprete ideale di Pietro il Grande, per sicurezza, dignità e serenità della linea di canto, sin dalla sontuosa cavatina, poi nella contegnosa interazione con gli altri personaggi, fino all’effusione paternalistica del finale. Al tempo stesso altero e dimesso, il falegname Carlo richiede un tenore che abbini il belcanto di rossiniana eredità a un lirismo più d’impeto: Francisco Brito sopperisce con una tecnica molto buona la scarsità di armonici della voce, anche se giunge alla virtuosistica aria del II atto con un po’ di stanchezza.
Donizetti volle che la voce femminile più importante fosse quella della locandiera, Madama Fritz; in questa edizione Paola Gardina ne veste i panni con il giusto brio e la puntuale esagerazione comica. La voce di questo soprano, di volume non grande, è molto pregevole, soprattutto nell’aria di disperazione che precede il finale (in cui rivela interessanti possibilità di vocalista rossiniana). Il magistrato del villaggio, Ser Cuccupis, è interpretato da un autentico baritono buffo della tradizione italiana, Marco Filippo Romano, che conta su un’emissione ferma, accenti pungenti, perspicacia nella recitazione, senza mai affettare i soliti atteggiamenti di chi vuol essere comico. Cantante dalla carriera ormai consolidata, ha tutte le caratteristiche per diventare un notevole Don Bartolo, Don Pasquale o Don Magnifico. Annetta, la figlia del defunto ribelle Mazepa e fidanzata di Carlo, è Nina Solodovnikova, soprano acuto con voce gentile, anche se ogni tanto il timbro ha ancora qualche piccola acerbità. Completano la compagnia in modo efficacissimo il soprano Loriana Castellano come Caterina, sposa dello kzar, il basso Tommaso Barea nel ruolo dell’usuraio Firman, il tenore Marcello Nardis come Hondedisky, miles gloriosus simile a Belcore, e il basso Stefano Gentili come Notaio.
Lo spettacolo di Marco Paciotti e Lorenzo Pasquali – direttori della compagnia Ondadurto Teatro – è un’inesauribile delizia per gli occhi: colori sgargianti, costumi surreali, luci caleidoscopiche e girandole di figure geometriche che si combinano e trasformano, attorniate da macchinari mobili (come il desco del falegname o l’imponente tribuna del magistrato) necessari a raccontare la vicenda. L’idea principale è ambientare una storia folklorica del XVIII secolo nella Russia delle avanguardie, con ammiccamenti all’astrattismo e alla poetica rivoluzionaria di Majakovskij. È notevole e beneaugurante che questa produzione costituisca il debutto di Ondadurto nel teatro musicale; magnifici anche i costumi del gruppo K.B. Project, del tutto coerenti con la scenografia, e perfette le luci di Marco Alba nel far risaltare le differenti temperature emotive della pièce.
Tra pose goldoniane («Son chi sono») e filantropica albagia, Pietro incarna – forse con un certo ritardo sul ritmo della Storia – l’autocrate illuminato che ambisce governare tutti i sudditi come figli; nell’ambito della storia del melodramma italiano, comunque, è quell’elemento garante della giustizia che manca all’atmosfera tragica e oppressa della Gazza ladra, in cui solo il caso determina lo scioglimento lieto della vicenda. In Donizetti, invece, la musica promana da una fiducia, giovanilmente ingenua, nell’ideale del buon governante: «È re chi ognor politico / internamente vede; / è padre chi provvede / l’oppressa umanità». Foto Gianfranco Rota © Festival Donizetti Opera
Libretto by Deborah Artman. Mikaela Bennett (Acquanetta), Amelia Watkins (Brainy Woman), Eliza Bagg (Ape), Matt Boehler (Director), Timur (Doctor). Michael Fish (director). Daniela Candillari (music director). Members of the Choir of Trinity Wall Street. Julian Wachner (director of music). T. Time: 70′. 1 Cd Cataloupe Club CA21150
Giunta nel 1940 a New York con un mistero sul suo passato in merito al quale dichiarò soltanto le sue origini americane, la celebre attrice di Film Horror Acquanetta è diventata la protagonista di un’opera di Michael Gordon su libretto di Deborah Artman che, composta nel 2005, è stata rielaborata in una versione da camera nel 2017 su commissione di Beth Morrison Projects per il PROTOTYPE Festival 2018. Aperta da un coro la cui scrittura ricorda quella di una colonna sonora di un film dell’orrore, l’opera presenta una struttura che contamina quella a pezzi chiusi (arie, duetti e cori) dell’opera ottocentesca con una scrittura moderna da colonna sonora di film dell’orrore appunto. La protagonista appare, infatti, subito dopo un coro iniziale interpretando l’aria dai toni spettrali e intrisa di mistero, Conceal me, come del resto, dopo un altro coro, fa il suo ingresso sulla scena il Mad Scientist (lo scienziato pazzo) della prima famosa pellicola interpretata nel 1943 dall’attrice americana, Captive Wild Woman, sulla quale si basa l’opera. In questo lavoro teatrale è, infatti, riprodotta la famosa scena nella quale la donna è trasformata in scimmia.
La musica di Gordon contribuisce, attraverso sonorità spettrali e una scrittura vocale che raramente ha veri e propri slanci lirici, a ricreare un’atmosfera di mistero e di grande tensione il cui scioglimento è affidato all’aria conclusiva di Acquanetta il cui verso iniziale I’m beautifull monster, nel quale è contenuto un ossimoro, sembra costituire una sintetica definizione di questo personaggio.
È possibile ascoltare l’opera nella versione da camera in un cd pubblicato nel 2019 dalla Cantaloupe Music che si distingue per un’ottima esecuzione sia da parte degli strumentisti, il cui coordinamento musicale è affidato a Daniela Candillari, sia da parte degli interpreti a partire da Mikaela Bennett, un’Acquanetta intrisa di mistero. Perfettamente in ruolo tutti gli altri: Amelia Watkins (Brainy Woman), Eliza Bagg (Ape), Matt Boehler (Director) e Timur (Doctor).
Napoli, Teatro di San Carlo, Stagione d’opera e danza 2018/19
“LADY, BE GOOD!”
Musical in due atti, Libretto di Guy Bolton e Fred Thompson
Musica di George Gershwin, Lyrics di Ira Gershwin
Libretto di Guy Bolton e Fred Thompson
Susie Trevor JENI BERN
Dick Trevor NICHOLAS GARRETT
Josephine Wanderwater MANUELA CUSTER
Watty Watkins TROY COOK
Bertie Bassett JONATHAN GUNTHORPE
Daisy Parke SUSANNA WOLFF
Jeff White CARL DANIELSEN
Jack Robinson DOMINIC TIGHE
Shirley Vernon LYNETTE TAPIA
Rufus Parke JOSEPH SHOVELTON
Manuel Estrada FRANCESCO CORDELLA
Un uomo, un poliziotto FIORENZO MADONNA
Orchestra, Coro e Corpo di ballo dell Teatro di San Carlo
Direttore Timothy Brock
Maestro del Coro Gea Garatti Ansini
Regia Emilio Sagi
Scene Daniel Bianco
Costumi Jesús Ruiz
Coreografie Nuria Castejon
Luci Eduardo Bravo
Produzione del Teatro de la Zarzuela di Madrid
Napoli, 23 novembre 2019
Un musical al San Carlo. Scelta azzardata, si sarebbe detto. Ed invece, guardare i napoletani, abituati a Donizetti e Rossini, fischiettare e canticchiare i ritornelli di alcune canzoni, all’uscita del teatro, è stato un piacere. Tutti travolti dai ritmi sincopati, dai brani dall’andamento danzante, dalle citazioni di charleston e dalle influenze del jazz della deliziosa gemma dei fratelli Gershwin: Lady, Be Good!, che ebbe felicissimo battesimo il 1° dicembre del 1924, al Liberty Theatre di New York. Si tratta d’un lavoro sospeso tra tradizione ed innovazione, soprattutto per gli evidenti legami coll’operetta viennese, e l’americanizzazione d’un genere musicale inglese, il musical. Tra gli stucchi dorati e i velluti rossi della Napoli belcantistica, approda questo piccolo capolavoro, con regia affidata ad Emilio Sagi, scene progettate da Daniel Bianco, e luci di Eduardo Bravo, delicate e rarefatte.
Il regista decanta il pregio delle piccole cose, delle cose genuine, infarinate d’una fiabesca falsità, d’una evidente e piacevole ipocrisia. Fissa in poche immagini la piccineria d’una società piccolo-borghese, abbandonata alla fiaba: romantiche bamboline danzanti, marionette convenzionali e standardizzate vengono inserite nella nota mondanità degli anni Venti. Impianti architettonici dalle nette e compatte forme geometriche, e dalle linee aggraziate ed eleganti, danno forma a salotti bardati a festa, ravvivati dalle travolgenti e brillanti coreografie di Nuria Castejon, all’insegna però della beata sobrietà, accennanti al charleston e al tip-tap. Sul podio napoletano, Timothy Brock. Egli mira alla costituzione d’un continuum timbrico. Una idea di totalità ininterrotta, determinata dalla intersostituibilità dei vari strumenti: così, trombe e voci microfonate finiscono per assomigliarsi. Ovviamente, all’espressività degli archi fa da contrappeso la materialità dei fiati. Brock, inoltre, fa emergere tutto il lirismo e tutta la malinconia dei Gershwin da sotto la coperta dell’apparente ottimismo fiabesco. Ottimo esito per la compagnia di canto, avvolta negli abiti di Jesús Ruiz, tipici della Belle Époque: paillette sgargianti, particolari guarnizioni che fanno da ornamento a raffinate capigliature, nastri, pizzi e ricami. Il soprano Juni Bern, dalla vocalità particolarmente calda e piena, instilla nella spigliata ma malinconica Susie Trevor, un temperamento teatrale degno del ruolo, favorendo una caratterizzazione elegiaca, patetica del personaggio. Voce deliziosa, dalla spiegata e superba musicalità, trae vantaggi dalla commovente canzone The Man I Love (Atto II), affrontata con appropriato abbandono lirico e sentita capacità di recitazione.
Parimenti convincente il basso-baritono Nicholas Garrett. La voce, dal timbro chiaro e brillante e dall’elegante cantabile, gli consente di trasfondere in Dick, affrontata con romantica signorilità. Travolgente l’interpretazione del baritono Troy Cook (Watkins). Sfoggia una voce dal bel colore, piena, che gli consente di cantare con opportuna ironia il travolgente e fischiettante brano che dà il titolo all’opera, Lady, be good! (Atto I). Buone le prove vocali e teatrali di Manuela Custer (Josephine Wanderwater), Jonathan Gunthorpe (Bertie Bassett), Susanna Wolff (Daisy Parke), Carl Danielsen (Jeff White), Dominic Tighe (Jack Robinson), Lynette Tapia (Shirley Vernon), Joseph Shovelton (Rufus Parke), Francesco Cordella (Manuel Estrada), Fiorenzo Madonna (Un Uomo, Un Poliziotto). Corretto l’apporto degli elementi del Coro diretto da Gea Garatti Ansini e, per l’occasione, decurtato. Un pubblico non foltissimo, ma giovanilei, ha accolto lo spettacolo con entusiasmo.
Italian & english version
Compositore americano, Michael Gordon ha composto diverse opere tra cui Acquanetta, che, rappresentata per la prima volta, ad Aachen in Germania nel 2005, è stata rielaborata nel 2017 in una nuova versione per orchestra da camera. Famosa attrice statunitense specializzata nei film horror, Acquanetta è diventata la protagonista della sua opera.
Quali sono gli aspetti di questo personaggio che l’hanno colpita?
Quando Aquanetta arrivò a New York, era una giovane donna dalle origini misteriose. Lei disse di essere un’Indiana (americana di nascita). La sua bellezza richiamò l’attenzione su di lei e divenne rapidamente una top model. I suoi agenti compresero che la sua carriera avrebbe avuto una fine e le cambiarono l’identità – divenne latina e presto seguì un contratto cinematografico. La sua ascesa nelle pellicole di serie B (presto diventate pellicole a basso costo, autentici thriller da botteghino) fu rapida. Poi improvvisamente Acquanetta sparì. La storia che sta dietro Acquanetta si complica maggiormente allorché la librettista Deborah avanzò il sospetto che fosse stata una donna afro-americana la cui pelle era stata schiarita. Quando abbiamo scritto l’opera nel 2005 Wikipedia non esisteva ancora e fu difficile trovare informazioni su Acquanetta la cui carriera si svolse nel giro di pochi anni intorno agli anni Quaranta. Ma il racconto si tinge di toni spaventosi quando vediamo il suo successo più grande, Captive Wild Woman. In questo film, un dottore matto trasforma una scimmia in donna. Nel processo di trasformazione in donna (interpretato da Acquanetta), la scimmia diventa prima una donna di colore – poi la sua pelle lentamente diventa bianca. Il sottinteso razzismo, accettato all’epoca, deve aver avuto un certo impatto emotivo su Acquanetta che ha cambiato la sua identità per ben due volte in modo da fuggire alle limitazioni imposte agli Afro-Americani. L’opera Acquanetta ruota intorno al tema dell’identità. Come Acquanetta ha nascosto la sua identità nella vita reale, così assumere nuove identità fu anche una parte essenziale del suo ruolo di attrice. L’opera ruota attorno a quest’unica scena – esaminando le identità degli attori che giocano un ruolo in questo esperimento.
Può raccontarci la genesi di quest’opera?
Mi piace leggere necrologi – C’è un’intera vita condensata in pochi capoversi. È sempre affascinante e si leggono come dei libretti. Lessi il necrologio di Acquanetta sul «New York Times» nel 2004 e lo mandai a Deborah Artman. Paul Esterhazy, che all’epoca era il direttore del teatro dell’opera di Aachen, mi aveva contatto e chiesto di scrivere un’opera. Deborah iniziò a fare alcune ricerche e ci venne in mente un’idea per l’opera.
L’opera, piuttiosto breve, presenta una struttura abbastanza chiara con scene chiuse quasi a formare un atto unico. Perché ha scelto questa struttura?
L’opera presenta cinque personaggi – lo scienziato pazzo, la scimmia, la donna (Acquanetta), l’assistente dello scienziato che controvoglia dona il suo cervello alla scimmia, e il regista che sta dirigendo la scena. Noi esploriamo l’identità di ogni personaggio e le supposizioni che noi facciamo intorno all’identità. Anche la scimmia era un attore professionista che interpretava animali e mostri nei film. In ogni caso noi facciamo e rispondiamo a domande sull’identità. Per quanto riguarda la scimmia che è nascosta in un costume il testo è molto bello: poiché io sono in questo costume, tu puoi dire, infatti, se sono buono o cattivo. Puoi dire se sono nero o bianco. Puoi dire se sono magro o grasso. Saresti sorpreso se i fossi una donna?
La sua musica ricalca anche quella delle pellicole dei film horror. Si può parlare a proposito del suo lavoro di una commistione tra la tradizione dell’opera e quella delle colonne sonore?
Sì, si può dire. Ho cercato di catturare sia il lato spaventoso che quello esagerato delle colonne sonore dei film horror e di usarlo come sfondo per le voci liriche.
Nel 2018 lei ha fatto una versione da camera diversa da quella originale del 2005. Può parlarci delle differenze tra queste due versioni e se una di queste due è a suo giudizio più congeniale ad esprimere meglio il contenuto della sua opera?
Il produttore e impresario della New York Opera Beth Morrison venne da me e mi chiese se potessi immaginare una versione da camera di Acquanetta. La versione originale era scritta per grande orchestra e coro. In quella originale ho riaccordato gli archi per fare in modo che essi realizzassero un suono sia spaventoso che rumoroso. Nella versione da camera uso la chitarra elettrica e strumenti amplificati per creare un simile mondo sonoro.
Ha altri progetti teatrali per il futuro?
Sì, sto lavorando a una versione operistica della tragedia di Shakespeare Titus Andronicus. Ambientata nell’antica Roma, Titus Andronicus è una tragedia di carattere militaresco il cui argomento si basa sul ciclo dell’odio e della vendetta. Contiene molti elementi che si vedono nei film di fantascienza sulla fine del mondo. Nel momento in cui Titus si conclude, ogni singolo personaggio è stato ucciso per mezzo di un atto di vendetta. Non è esagerato dire che un’allegoria del nostro mondo contemporaneo, nel quale andiamo incontro alla possibilità di morire con diversi metodi?
Acquanetta was a famous American actress who worked in horror movies who has become the protagonist of your opera. Can you explain us what aspects of this character did strike you in particular?
Acquanetta came to New York City as a young women with mysterious origins. She told people that she was an Indian (Native American). Her beauty attracted attention and she quickly became a supermodel. Her agents felt that her career path was limited and they changed her identity – she became a “Latina” and a movie contract soon followed. Her rise in “B” movies (quickly made cheap movies that were box office thrillers) was rapid. Then suddenly Acquanetta disappeared. The story behind Acquanetta becomes more complicated when librettist Deborah Artman suspected that she was a light skinned African-American woman. When we wrote the opera in 2005 Wikipedia didn’t exist, and information about Acquanetta, whose career spanned just a few years in the 1940s, was hard to find. But her story becomes chilling when you watch her biggest hit, Captive Wild Woman. In this movie, a mad doctor turns an ape into a woman. In the process of becoming a woman (played by Acquanetta), the Ape first becomes a black woman – then her skin slowly lightens. The implied racism, accepted at the time, must have had an emotional impact on Acquanetta, who had changed her identity twice in order to escape the limitations imposed on African Americans. The opera Acquanetta revolves around the theme of identity. Just as Acquanetta covered her identity in real life, it was also an essential part of her role as an actress – to take on new identities. The opera revolves around this one scene – examining the identities of the actors who play a role in this experiment.
Can you tell us how this opera originated?
I like to read obituaries – an entire life is condensed into a few paragraphs. It’s always fascinating and they read like librettos. I read Acquanetta’s obituary in the New York Times in 2004 and sent it to Deborah Artman. Paul Esterhazy, who at the time was the director of Oper Aachen, had contacted me and asked me to write an opera. Deborah started doing some research and we came up with an idea for the piece.
This short opera features a fairly clear structure with closed scene that almost form a whole. Why did you choose this structure?
The opera has five characters – the mad scientist, the ape, the woman (Acquanetta), the scientist’s assistant who unwillingly donates her brain to the ape, and the director who is directing the scene. For each character we explore their identity and the assumptions we make about identity. Even the ape was a professional actor who played animals and monsters in movies. In each case we search and ask questions about identity. For the ape, who is hidden in a costume, the lyric is very beautiful: Because I’m inside this costume you can’t tell if I’m good or bad. You can’t tell if I’m black or white. You can’t tell if I’m thin or round. Would it surprise you if I were a woman?
Your music echoes the soundtracks of horror movies. Can we say that your opera is a sort of crossover between operatic tradition and the world of soundtracks?
Yes you can. I tried to capture both the scary and campy side of the horror film soundtrack and use it as the background for the operatic voices.
In 2018 you created a chamber music version that is different from the 2005 original one. Can you tell us about the differences between these two versions and if, in your opinion, one of them better explains the content of your opera?
The New York opera producer and impresario Beth Morrison came to me and asked if I could imagine a chamber version of Acquanetta. The original was scored for full orchestra and chorus. In the original, I retuned the strings to make them sound both scary and noisy. In the chamber version I use electric guitar and amplified instruments to create a similar sound world.
Do you have other theatrical projects in the works?
Yes. I’m working on an operatic version of Shakespeare’s play Titus Andronicus. Set in ancient Rome, Titus Andronicus is a militaristic play about the cycle of hate and revenge. It contains many of the elements that we see in end-of-the-world sci-fi movies. By the time Titus is over, every single character in the play has been killed in an act of revenge. Is it too much to say that it’s an allegory for our current times, where we are facing the possibility of extinction by several methods?
Richard Strauss (Monaco di Baviera 1864 – Garmisch-Partenkirchen 1949)
Intermezzo op. 72, opera in due atti su libretto proprio.
Prima rappresentazione: Statsoper di Dresda, il 4 novembre 1924 “Quanto a una nuova opera, ho in mente le due cose seguenti: o una commedia perfettamente moderna, tutta realistica, di caratteri e di psicologie nervose, del tipo a cui Le ho già accennato quando Ella mi ha indirizzato a Bahr – oppure un grazioso lavoro d’amore e d’intrigo, più o meno a metà strada tra la Liebelei di Schnitzler, che naturalmente è troppo stucchevole e insulsa – e Geheimer Agent di Hackländer o Le Verre d’eau di Scribe, un genere di commedia a intrigo di cui ho sempre avuto una speciale predilezione” (Hugo von Hofmannsthal-Richard Strauss, Epistolario, Adelphi, Milano, 1953, p. 358).
Questo accenno alla composizione di una nuova opera, contenuto nella lettera del 25 maggio 1916 indirizzata ad Hofmannsthal, costituisce una testimonianza del particolare fervore creativo che stava vivendo Strauss in quel periodo funestato dalla guerra. Non particolarmente pronto, tuttavia, ad impegnarsi in una nuova avventura soprattutto in un genere nel quale si sentiva meno versato, era sicuramente Hofmannsthal che, già in precedenza, aveva suggerito, come si evince dalla lettera precedente, il nome di Hermann Bahr, critico, autore teatrale e romanziere di spicco nel panorama letterario austriaco del tempo. Strauss, che stava lavorando alacremente al prologo della seconda versione dell’Ariadne auf Naxos, avrebbe voluto che fosse Hofmannsthal a scrivere il libretto di questa sua nuova opera e il 5 giugno del 1916 scrisse al suo poeta:
“Rida, rida: ma io so bene quello che voglio. Quando avrà ascoltato il nuovo prologo [dell’Ariadne auf Naxos], che sarà finito in partitura verso il 20 giugno (dunque La aspetto senz’altro verso il 10 luglio qui a Garmisch, una stanza degli ospiti è a Sua disposizione, e spero che rimarrà da noi almeno un paio di giorni) – mi capirà e si accorgerà che ho un grande talento per l’operetta – anche perché il mio lato tragico è un po’ spompato, e dopo questa guerra la tragedia in teatro mi sembra per ora alquanto fiacca e infantile, e il mio incoercibile talento (in fin dei conti sono l’unico compositore oggi che abbia veramente umorismo, arguzia e uno spiccato talento per la parodia) lo vorrei mettere alla prova. Sì, mi sento addirittura chiamato a diventare l’Offenbach del 20° secolo, ed Ella sarà, deve essere, il mio poeta. La Hélène e l’Orphée di Offenbach hanno portato ad absurdum le ridicolaggini del «grand-opéra». Ciò a cui miro con le provocazioni che mi passano per la mente, e di cui Lei si irrita tanto, sarebbe una parodia politico-satirica di stile il più tagliente possibile. Perché lei non dovrebbe riuscirci? In genere Lei scrive troppo poco: dia energicamente di sprone al suo Pegaso, una buona volta. Allora sì che la bestiaccia corre. La nostra strada parte dal Rosenkavalier”. (Ivi, pp. 360-361).
In realtà Hofmannsthal non diede energicamente di sprone al suo Pegaso e Strauss cominciò a collaborare con Bahr dando corso a tentativi che si rivelarono del tutto inutili, tanto che il nostro compositore decise di scrivere il libretto da sé. Così lo stesso Strauss avrebbe ricordato in seguito la composizione di Intermezzo:
“Il tuffo nella fiaba romantica e la forte tensione fantastica prodotta dal difficile soggetto della Donna senz’ombra fecero rinascere in me il desiderio di un’opera moderna, realistica, che nutrivo da tempo: otto giorni di soggiorno nel sanatorio del dottor Krekke mi permisero di buttar giù il testo di Intermezzo. Già in precedenza avevo esposto l’argomento a Bahr pregandolo di cavarne un libretto d’opera. Bahr stese una traccia, ma infine mi disse: «Nessuno può farlo, se non lei». E così fu. La piccola, innocua vicenda mi valse questa lode di Max Reinhardt: il testo di Intermezzo gli pareva così ben fatto che non avrebbe esitato un istante a rappresentarlo anche come commedia in prosa” (R. Strauss, Note di passaggio, Riflessioni e ricordi, a cura di S. Sablich, EDT, Torino 1991, p. 144).
Per quanto riguarda il soggetto Strauss s’ispirò ad un fatto, apparentemente inverosimile, ma assolutamente vero, di cui fu direttamente protagonista; si tratta di un presunto suo tradimento perpetrato ai danni della moglie Pauline quando, nel 1903, ricopriva a Berlino l’incarico di Hofkapellmeister. In quell’occasione una giovane donna scambiò il compositore tedesco per un tale di nome Stanky che era il direttore di una compagnia italiana di passaggio nella città tedesca. Lo scambio di persona, che non era stato originato solo da una forma di assonanza dei due cognomi, ma anche dal fatto che Strauss era stato visto dalla donna conversare amabilmente in italiano con alcuni suoi amici, avrebbe potuto condurre a delle conseguenze più serie; la giovane donna indirizzò, infatti, a Strauss una lettera il cui contenuto non lasciava adito ad equivoci sulla natura amorosa dei loro rapporti. Caduta nelle mani della moglie Pauline che, in assenza del marito impegnato in tournée, l’aveva aperta, la lettera ne provocò la gelosia e la rabbia tanto da indurla a rivolgersi immediatamente al suo avvocato per chiedere il divorzio oltre ad una parte del patrimonio e l’affidamento del figlio. Al ritorno di Strauss i due coniugi si chiarirono e l’episodio increscioso non ebbe conseguenze, ma il compositore ricordò questo episodio che, insieme ad alcuni modelli letterari tra cui la novella Doppio sogno di Arthur Schnitzler, della quale sono protagonisti due coniugi che si confessano un mancato tradimento, costituisce la fonte d’ispirazione del libretto di quest’opera in cui non manca una certa autoironia come è dimostrato dalla scelta di modificare il suo cognome, Strauss, struzzo in tedesco , con Storch che, invece, significa cicogna.
Completata il 21 agosto 1923 a Buenos Aires, dove Strauss si trovava per una tournée con i Wiener, l’opera fu rappresentata per la prima volta alla Statsoper di Dresda il 4 novembre 1924 sotto la direzione di Fritz Busch con Lotte Lehmann (Christine Storch), Joseph Correck (Robert Storch), Theo Strack (il barone Lammer) ed Elfriede Haberkorn (sua moglie). Per questa prima lo stesso Strauss curò la scelta del cast e soprattutto impose il nome della Lehmann, già la Tintora nella Donna senz’ombra, per il ruolo di Christine Storch, trasposizione teatrale della moglie Pauline. Questa scelta suscitò qualche perplessità a causa di alcune imperfezioni musicali di questo soprano che facevano spazientire anche il direttore Busch, il quale, durante le prove, non mancava di manifestare il suo disappunto lanciando delle occhiate a Strauss, proprio mentre la Lehmann cantava. Il compositore, per nulla infastidito, affermava: Vedo bene che la signorina Lehmann galleggia, ma preferisco il suo galleggiare al canto delle altre cantanti. In effetti Strauss aveva scelto la Lehmann perché convinto non solo del fatto che il pubblico di Dresda, dove vi lavorava stabilmente un cast che metteva in scena le sue opere, avrebbe gradito poco la presenza di una diva di Vienna, ma anche perché il soprano tedesco aveva avuto modo di conoscere gli atteggiamenti della moglie in occasione di un suo soggiorno a Garmisch nel 1919.
L’opera – Atto Primo
Definita da Strauss una commedia borghese con interludi musicali, l’opera si apre con un vero e proprio quadretto borghese il cui teatro è la casa di Grundlsee dell’Hofkapellmeister Robert Storch. Questi è in procinto di partire per Vienna per ragioni di lavoro, mentre sua moglie Christine, particolarmente ansiosa, si lamenta della servitù e rimprovera il marito di essere spesso distratto. Questi, conoscendo bene gli sbalzi di umore della donna, resta imperturbabile e si appresta a fare colazione mentre la moglie gli rimprovera le sue origini. In questa scena iniziale, come avviene di solito nelle partiture operistiche di Strauss, nella prima battuta, appare anche il Leitmotiv principale, qui costituito dal cromatismo discendente a cui segue il salto di nona che ricorre spesso all’interno dell’opera per rappresentare l’unità familiare messa in discussione dall’equivoco, mentre la scrittura vocale tende verso un’imitazione del parlato in quanto non si libra quasi mai in aperture liriche già sin dalla prima battuta nella quale Christine chiama la serva Anna con un salto di settima. Nel prosieguo della scena e molto spesso all’interno dell’opera la scrittura vocale dei due personaggi è resa anche con disegni rapidi tesi ad imitare la fluidità del parlato, mentre l’orchestra, il cui organico è sensibilmente ridotto, sottolinea, intervenendo di volta in volta, il dialogo dei due coniugi. L’esposizione, da parte dell’orchestra, di un tema estremamente rapido, marcato in partitura con l’andamento Presto, che sembra rappresentare l’affaccendarsi delle donne nello svolgere i mestieri di casa, introduce una nuova situazione scenica in cui si assiste a un dialogo tra la serva e la donna colpita dalla solita profonda tristezza causata dalla partenza del marito il quale, ritornato, prende congedo dalla moglie che non gli lesina consigli accompagnati da una musica particolarmente gaia e leggera quasi di sapore settecentesco.
Dopo un breve intermezzo orchestrale nel quale ritornano rielaborati i temi precedentemente esposti dall’orchestra, Christine, rimasta sola con la sua serva Anna, su un accompagnamento orchestrale leggerissimo nel quale emerge il delicato suono dell’arpa, si fa bella (Nun wollen wir friesieren!). Triste perché il marito è partito, Christine avrebbe voluto accompagnarlo, ma è trattenuta da numerose incombenze, tra cui la cura del figlioletto, gli ordini da dare alla sua cuoca, che spedisce rapidamente in cucina, o fare delle telefonate. In questa scena, nella quale parti parlate si alternano ad altre cantate, l’ironia di Strauss si esercita anche attraverso una scrittura orchestrale in cui non mancano toni patetici. Sempre su una scrittura patetica che fa largo uso del motivo iniziale, la donna si lamenta del marito con la serva che prende violentemente le difese del suo padrone. Le due donne sono interrotte dallo squillo del telefono, intervallato da un brevissimo motivo del fagotto; all’altro capo c’è un’amica che, come si apprende dalle parole recitate dalla donna su un leggerissimo accompagnamento degli archi, del flauto e del clarinetto, invita Christine ad un appuntamento.
Un breve interludio orchestrale, costituito principalmente sul tema cromatico discendente che ha caratterizzato il dialogo delle due donne qui alternato con altri elementi tematici già utilizzati da Strauss, accompagna il cambio di scena. Christine si trova nella pista di toboga, una particolare slitta il cui scivolare sul ghiaccio è reso attraverso delle rapide scale discendenti che partono da vitrei suoni acuti tenuti. La donna, imbattutasi per caso nel barone Lummer che, involontariamente, fa cadere e scopre essere il figlio di un suo amico, lo invita a casa sua dando vita a una brevissima scena tratteggiata con rara finezza soprattutto nell’orchestrazione particolarmente leggera.
Un altro interludio orchestrale, che questa volta prende le movenze di un elegante valzer viennese già nel tema principale esposto dal pianoforte, accompagna il nuovo cambiamento di scena aperta da squilli di tromba che ironicamente sembrano evocare, per il loro carattere falsamente solenne, un ambiente aristocratico settecentesco. Qui Christine, sempre al ritmo di un elegante valzer viennese, balla con il Barone che si mostra premuroso nei suoi confronti. Molto bella è l’impostazione quasi cinematografica della scena con il dialogo dei due personaggi (Ich kann nicht mehr / Non ne posso più) in primo piano e il valzer intonato da una piccola ensemble di fiati sullo sfondo.
Un altro interludio orchestrale, sempre su un ritmo di valzer, conduce alla scena successiva costituita da una camera ammobiliata, ubicata nella casa di un notaio, che Christine sta affittando per il Barone, come si apprende nel dialogo tra questa e la moglie del notaio. La scena, inizialmente simile al recitativo accompagnato che viene rielaborato in una forma estremamente moderna, ha un carattere discorsivo con una scrittura vocale costituita da ribattuti che imitano il parlato.
Un nuovo interludio orchestrale, questa volta costituito su un elegante tema in 2/4, accompagna l’ennesimo cambio di scena. La donna adesso si trova nel suo appartamento dove sta ascrivendo una lettera al marito per informarlo della sua nuova amicizia con il barone dal quale è attratta perché si sente apprezzata come donna e non in quanto moglie di un famoso direttore d’orchestra. La parte iniziale della scena, per la sua alternanza di recitazione e canto sempre su un’orchestrazione leggera, presenta un carattere da operetta. Annunciato dalla cuoca Fanny, fa il suo ingresso il barone e i due danno vita a un duetto nel quale passi lirici si alternano ad altri più “discorsivi” su argomenti piuttosto banali. La discussione diventa scottante allorché la donna gli chiede quando pensa di riprendere i suoi studi; il giovane uomo, piuttosto refrattario all’argomento, risponde che preferirebbe prima viaggiare ma è privo di mezzi per farlo. La donna sposta allora il discorso sui fatti riportati dai giornali, mentre l’orchestra intona il valzer che aveva caratterizzato uno dei loro primi incontri; l’uomo, tuttavia, cerca di orientare la discussione sempre sul lato economico strappando alla donna la promessa che avrebbe parlato con suo marito, un uomo tanto buono e generoso, che non le avrebbe certamente negato un prestito. Nel prosieguo del duetto, caratterizzato musicalmente dal motivo iniziale rielaborato in orchestra, il Barone insiste per avere un prestito a prescindere dalla decisione del marito. Alla fine l’uomo va via e Christine, mentre in orchestra i violoncelli raddoppiati da un languido corno inglese intonano un tema d’intenso lirismo, pensa teneramente al marito.
Questo tema, insieme al motivo iniziale rielaborato e allargato, informa il successivo lirico interludio orchestrale che accompagna il successivo cambiamento di scena di carattere completamente diverso. Il fagotto, duettando con il clarinetto, introduce un buffo tema che serve ad ambientare la scena che si svolge nella camera del barone che sta perdendo il suo tempo sia pensando ai viaggi che avrebbe potuto fare sia intonando una canzone popolare sia suonando un zufolo. Giunge una sua amica di nome Resi che l’uomo congeda rapidamente intenzionato a fare un altro tentativo presso Christine chiedendole il prestito tramite una lettera.
Un altro interludio orchestrale, costruito con elementi tematici precedentemente ascoltati, accompagna il nuovo cambio di scena che si sposta nell’appartamento di Christine, particolarmente irritata per la richiesta di mille marchi avanzatale dal barone. La sua irritazione, rappresentata inizialmente da graffianti accordi degli archi, si tramuta in freddezza allorché giunge il barone con il quale intrattiene un dialogo con ampie sezioni discorsive intercalate dal lirico tema che, utilizzato in precedenza, qui appare ormai come uno sbiadito ricordo di quel momento di serenità. Nel frattempo viene recapitata a Christine una lettera indirizzata al marito e da lei aperta in sua assenza nella quale una donna, oltre a chiedere all’uomo, con accenti inequivocabili sulla natura amorosa dei loro rapporti, di fornirgli altri due biglietti per l’opera, gli dava appuntamento, come di consueto, al solito bar, firmandosi alla fine: Deine Mieze Maier (La tua micia Maier). Christine cade in una profonda disperazione rappresentata icasticamente dal tema iniziale, qui rielaborato per moto contrario quasi a rappresentare il crollo delle certezze coniugali sulle quali aveva fondato la sua vita. Presa da rabbia, Christine invia immediatamente un telegramma al marito con il quale gli comunica la sua decisione di lasciarlo e, nel contempo ordina che si facciano le valigie.
Un nuovo interludio orchestrale, questa volta agitato e patetico, accompagna l’ultimo cambio di scena dell’atto. La donna, introdotta e accompagnata dal dolente suono del corno inglese, si trova nella stanza del figlioletto Franzl, al quale comunica la sua decisione di andar via. Il bambino, recitando, contrariamente alla madre che si abbandona ad un lirico pianto dagli accenti wagneriani, tenta di difendere il padre. Un pianissimo accordo di fa minore conclude l’atto dopo i drammatici interventi degli archi raddoppiati prima dalle trombe e poi dai tromboni a cui si uniscono i corni.
Atto secondo
Una breve introduzione strumentale, di carattere cameristico per la scelta di ridurre l’organico orchestrale a pochi strumenti, in prevalenza archi, a cui si aggiunge il pianoforte che si produce in un tema brillante, disegna l’ambiente salottiero della scena iniziale del secondo atto che si svolge nel salone dell’abitazione del consulente commerciale il quale, mentre sta giocando a Skat insieme al consigliere di giustizia, al Kammersänger e al Kapellmeister Stroh, si intrattiene con loro parlando dello strano caso capitato a Storch in uno stile che oserei definire, ancora una volta, discorsivo, per l’insistenza sui ribattuti che imitano il parlato. Giunto improvvisamente e del tutto ignaro del telegramma inviatogli dalla moglie, Robert Storch la difende con veemenza, quando lo si punzecchia sugli umori piuttosto cangianti di Christine, mentre l’orchestra intona dei temi già ascoltati nell’atto primo che richiamano la serenità coniugale della coppia. L’arrivo del telegramma della moglie produce un totale cambio d’atmosfera con l’orchestra che perde quel carattere salottiero per prodursi in graffianti sforzati e in disegni drammatici che sottolineano i commenti dell’uomo dopo la lettura del sorprendente telegramma. Alla fine l’uomo va via per riflettere, mentre gli altri, dopo una breve drammatica parentesi orchestrale, continuano a giocare dando vita a un comico quadretto borghese.
Un breve interludio di carattere cameristico, nel quale emerge la perizia contrappuntistica di Strauss, accompagna il primo cambio di scena che conduce il pubblico nell’ufficio del notaio dove Christine si è recata per chiedere il divorzio. Un raggelante tema dei legni ambienta la scena, nella quale, però, la donna non ottiene ciò che chiede, in quanto il notaio non si dichiara pronto a dare corso alle pratiche se non dopo aver ascoltato il marito. I due danno vita ad un alterco al termine del quale Christine furiosa va via brontolando.
La rabbia della donna sembra materializzarsi nel drammatico interludio orchestrale che accompagna il secondo cambio di scena dell’atto e in realtà rappresenta, in modo icastico, non solo il suo stato d’animo ma anche la tempesta che si è abbattuta su Vienna e in particolare sul Prater dove si trova Storch che vaga senza meta e senza sapere ciò che deve fare. Lo raggiunge Stroh il quale, sempre in uno stile “discorsivo” svela l’equivoco che ha generato la violenta reazione della moglie; la lettera, che per un errore causato dalla somiglianza del nome era stata recapitata a Storch, era indirizzata a lui stesso. A questo punto l’uomo chiede al suo interlocutore di recarsi da sua moglie per chiarire l’equivoco di cui era stato inconsapevolmente vittima.
Un interludio orchestrale altisonante e falsamente eroico e, per questo, ironico conduce il pubblico all’interno della toilette di Christine che si sta preparando per partire. In questo ambiente regna il disordine, rappresentato quasi dall’affollamento di temi legati, però, da Strauss con un sottile gioco contrappuntistico; la donna discute con la sua cameriera intorno alla decisione di aver incaricato il Barone di scoprire se veramente esistesse una liaison tra suo marito e la presunta Mieze Maier. In questa scena, nella quale ancora una volta parti recitate si alternano ad altre cantate che per la scrittura fortemente drammatica e quasi “espressionista” potrebbero ben figurare in opere come Elektra, la donna dubita delle capacità del barone di portare a termine la sua missione, anche perché ha dimenticato di dargli una foto di suo marito. Nel frattempo giunge un telegramma con il quale Storch cerca inutilmente di spiegarle l’equivoco; la donna, infatti, resta scettica, pensando che sia una scusa. Soltanto Stroh potrebbe provare la veridicità delle affermazioni del marito e questi, dopo esser stato annunciato, viene fatto entrare.
Un breve interludio sinfonico sposta la scena nella sala da pranzo dove la donna attende suo marito che, però, al suo arrivo tratta con freddezza. Ne deriva un alterco ironicamente rappresentato da Strauss con una scrittura fortemente drammatica al termine del quale Christine resta distrutta.
Una scrittura orchestrale leggera “annuncia” l’arrivo del Barone di ritorno dalla sua missione; anche questi è trattato con freddezza da Christine ed è seguito dal marito che giunge poco dopo, accompagnato da un’orchestra ridotta ad un organico quasi cameristico. L’uomo si prende gioco della donna e soprattutto della sua presunta infatuazione per il barone. Questa, non senza vergogna, confessa la richiesta fattale dal giovane uomo di mille marchi suscitando l’ilarità del marito che afferma ironicamente das nenn’ ich ein Malheur (Questa, almeno, è una vera disgrazia). Sul tema d’intenso lirismo, che nel primo atto aveva caratterizzato il sentimento d’amore di Christine nei confronti del marito (Es. 3), la donna, ormai guarita dalla sua gelosia, promette, duettando con lui in una scrittura di ascendenza tristaniana per alcuni elementi cromatici e per l’uso delle progressioni ascendenti, di non contrariarlo più. Dopo che i due coniugi si sono dichiarati reciproco amore, la donna conclude affermando: Gelt, mein lieber Robert, das mennt Man doch wahrhaftig eine glückliche ehe? (Mio caro Robert, non è questo quello che le persone chiamano un matrimonio felice?)
Domenica 1 dicembre – ore 10.00 /10.20
Andrea Chénier secondo Chailly e Martone
“ANDREA CHÉNIER”
Musica Umberto Giordano
Direttore Riccardo Chailly
Regia Mario Martone
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala di Milano
Interpreti: Yusif Eyvazov, Anna Netrebko, Luca Salsi…
Milano, 2017
Giovedì 5 dicembre – ore 21.15
Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Direttore Antonio Pappano
Gustav Mahler: Sinfonia n. 9
Roma, 2019
RAI 1 Sabato 7 dicembre – 17.45
“TOSCA“
Musica Giacomo Puccini
Direttore Riccardo Chailly
Regia Davide Livermore
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala di Milano
Interpreti: Anna Netrebko, Francesco Meli, Luca Salsi….
Milano, 2019
Domenica 8 dicembre – ore 10.00
“GISELLE”
Musica Adolphe Adam
Coreografia Jean Coralli & Jules Perrot
Direttore David Coleman
Orchestra e Corpo di ballo del Teatro alla Scala
Interpreti: Svetlana Zahkarova, Roberto Bolle…
Milano, 2005
Souvenir: Camille Saint-Saëns, Extase e Papillons; Charles Bordes, Promenade Matinale; Hector Berlioz, Au cimetière (Les Nuits d’été, H 81); Jules Massenet, Le Poète et le Fantôme. Gabriel Pierné, Chanson d’autrefois (da Album pour mes petits amis, op. 14); Théodore Dubois, Si j’ai parlé… si j’ai aimé.
Désir & Séduction: Hector Berlioz, Villanelle (Les Nuits d’été, H 81); Théodore Dubois, Promenade à l’étang (Musiques sur l’eau); Louis Vierne, Beaux Papillons blancs (Trois Mélodies, op. 11); Henry Duparc, Aux étoiles; Alexandre Guilmant, Ce que dit le silence; Théodore Dubois, Sous le saule; Camille Saint-Saëns, Aimons-nous; Jules Massenet, Valse très lente; Camille Saint-Saëns, L’Enlèvement; Benjamin Godard, Grave (da Symphonie Gothique op. 23); Jean-Paul-Égide Martini, Plaisir d’amour. Sandrine Piau (soprano). Le Concert de la Loge. Julien Chauvin (violino e direttore). Partitions éditées par le Palazzetto Bru Zane. Reagistrazione: Arsenal (Cité musicale-Metz), marzo 2018. T. Time: 59’25″. 1 CD Alpha Classics 2019 ALPHA445.
Nella seconda metà dell’Ottocento, sull’onda delle Nuits d’été di Hector Berlioz e del Poème de l’amour et de la mer di Chausson, fiorì una vasta produzione di liriche per voce e orchestra estremamente raffinata sia per i testi che le melodie e che rispondeva all’esigenza di far uscire dai salotti privati un repertorio fino a quel momento di carattere cameristico per eseguirlo nelle vaste sale da concerto con l’accompagnamento dell’orchestra. Del resto l’esecuzione dei brani d’opera, staccati dal contesto, e la scarsa qualità letteraria dei libretti non soddisfacevano del tutto l’ambiente musicale dell’epoca. Riportato alla luce dal sempre pregevole lavoro filologico degli studiosi del Palazzetto Bru Zane, questo repertorio diventa il protagonista del raffinato album Si j’ai aimé, dove è possibile ascoltare autentiche gemme, non tutte di autori popolari, che finalmente, grazie all’interpretazione di Sandrine Piau, accompagnata da Le concert de la loge, un’orchestra costituita da strumenti d’epoca, fondata da Julien Chauvin con l’ambizione di far rivivere Le Concert de la Loge Olympique, possono ritornare a brillare. Nel ricco programma del Cd, diviso, in base alle tematiche delle mélodies proposte, in due parti, Souvenir e Désir & Séduction, ci sono, infatti, accanto ai nomi famosi di Saint-Saëns, Massenet e Berlioz, del quale sono ripresi due brani tratti da Les Nuits d’été, quelli meno noti di Charles Bordes, Thédore Dubois, Louis Vierne, Henri Duparc, Alexandre Guilmant. Unico denominatore di questi brani è comunque l’alta qualità dei testi letterari firmati da autori famosi come Victor Hugo, Paul Verlaine, Théophile Gautier e Théodore de Banville e altri meno noti come Renée de Léché, Charles Barthélemy, Louis de Courmont e Jean-Pierre Claris de Florian.
Dotata di una voce particolarmente bella soprattutto nel settore medio-grave, Sandrine Piau fa rivivere questi brani interpretandoli con rara finezza e senso dello stile e piegando la sua notevole tecnica all’espressione del contenuto e dei valori poetici del testo che ne risultano esaltati. L’artista si integra perfettamente con l’orchestra Le concert de la loge, diretta con altrettanto senso dello stile da Julien Chauvin. Completano il programma La chanson d’autrefois di Gabriel Pierné, Aux étoiles dal Poème Nocturne di Henri Duparc, il Valse très lente di Massenet, e Grave (da Symphonie Gothique op. 23) di Benjamin Godard, tutti brani esclusivamente orchestrali interpretati con attenzione alle dinamiche e alla ricerca di un bel suono.
Chimère: Carl Loewe, Geothe und Loewe – Lieder und Balladen (Ach neige, du Schmerzenreiche); Robert Schumann, Lieder und Gesänge Aus ‚Wilhelm Meister, Op. 98A (Mignon‚ Kennst du das Land ?) 5 Lieder Und Gesänge, Op.127 (Dein Angesicht), Myrthen, Op.25, (Die Lotosblume); Claude Debussy, Fêtes galantes I, CD 86 (En sourdine, Fantoches, Clair de lune); Hugo Wolf, Verschwiegene Liebe, Nixe Binsefuss, Das verlassene Mägdelein, Lied vom Winde; Ivor Gurney, 5 Elizabethan Songs, Iig 2 (Sleep); Robert Baksa, Heart! we will forget him; Francis Poulenc, Banalités, FP. 107 (Chanson d’Orkenise, Hôtel, Fagnes de Wallonie, Voyage à Paris, Sanglots); Samuel Barber, Despite and Still, Op. 41 (Solitary Hotel, op.41 No.4); Francis Poulenc, Métamorphoses, FP 121 (C’est ainsi que tu es); André Previn, Three Dickinson Songs (As Imperceptibly as Grief, Will There Really Be a Morning?, Good Morning Midnight). Sandrine Piau (soprano). Susan Manoff (pianoforte). Registrazione: Teldex Studio di Berlino, settembre 2017. T. Time: 58′ 27″. 1 CD Alpha Classics 2018 ALPHA 397
Chimère con riferimento sia al persaonggio mitico sia al significato che ha assunto l’aggettivo chimerico, come creazione immaginaria della mente, è il titolo di un affascinante album del 2018 pubblicato dall’etichetta Alpha Classics di cui è protagonista il soprano francese Sandrine Piau. Il vasto e vario programma proposto dalla cantante spazia dalla tradizione liederistica tedesca, rappresentata da Loewe, Schumann e Wolf fino a quella meno nota dei song in lingua inglese di compositori del Novecento britannici, come Ivor Gurney, o statunitensi come Robert Baksa, Samuel Barber e André Previn, di recente scomparso ma ancora in vita al momento della pubblicazione del Cd. La Piau mostra di padroneggiare questo repertorio, nel quale figura anche la grande tradizione delle mélodies francesi con Debussy e Poulenc, intepretandolo con gusto, senso dello stile e con una straordinaria attenzione al fraseggio e alle dinamiche. Con la sua voce veramente affascinante regala in questo CD autentiche emozioni creando un’atmosfera incantevole alla quale contribuisce Susan Manoff al pianoforte. La pianista non solo accompagna, ma sostiene, con un tocco sempre ben calibrato e raffinato e, in alcuni passi, straordinariamente leggero, la voce integrandosi perfettamente con essa e contribuendo, così, a creare un prodotto di pregevole fattura.
Jesi, Teatro “G.B. Pergolesi,” Stagione lirca 2019
“TURANDOT”
Dramma lirico in tre atti, libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni, dalla fiaba teatrale di Carlo Gozzi
Musica di Giacomo Puccini
Versione originale incompiuta
La principessa Turandot TIZIANA CARUSO
L’imperatore Altoum CESARE CATANI
Timur ANDREA CONCETTI
Il principe ignoto (Calaf) FRANCESCO PIO GALASSO
Liù MARIA LAURA IACOBELLIS
Ping / Un mandarino PAOLO INGRASCIOTTA
Pang UGO TARQUINI
Pong VASSILY SOLODKYY
Il principe di Persia EGIDIO EGIDI
La tentazione ERIKA ROMBALDONI
Form-Orchestra Filarmonica Marchigiana , Coro Ventidio Basso di Ascoli Piceno, Pueri Cantores “ D. Zamberletti” di Macerata
Direttore Pietro Rizzo
Maestro del coro Giovanni Farina
Maestro Pueri Cantores Gian Luca Paolucci
Regia, scene, costumi e luci Pier Luigi Pizzi
Nuovo allestimento in cooproduzione con Fondazione Rete Lirica delle Marche.Allestimento dell’Associazione Arena Sferisterio
Jesi, 1 dicembre 2019
Terzo titolo nel cartellone della stagione d’opera al teatro Pergolesi di Jesi con un altro classico del maestro Giacomo Puccini: Turandot.
Per l’occasione si è scelto di rappresentare la versione originale incompiuta del 1926, che termina con la morte e il sacrificio di Liù.
Una nuova produzione, con la fondazione della rete lirica delle Marche, che riprende uno spettacolo di Pier Luigi Pizzi, andato in scena nel 2016 all’Arena Sferisterio di Macerata.
Il nome di Pizzi è garanzia di eleganza e anche questo allestimento risponde pienamente a questo sinonimo. Scena geometricamente sobria, dominata da un’ampia scalinata. Vi campeggiano alcune statue di divintà orientali. Il tutto valorizzato da luci efficaci e costumi raffinati. Su questa linea si muove anche la regia, rigorosa, ma con momenti di bell’impatto visivo: l’invocazione della luna, costellata di lanterne cinesi, l’ingresso di Turandot con un lunghissimo ed enigmatico velo rosso e il toccante finale che vede Calaf abbracciare Timur e Liù in una posa di sacro compianto. Sul piano musicale, l’orchestra filarmonica marchigiana, sotto la direzione di Pietro Rizzo, ha ben risposto all’energica, a tratti violenta, ma sempre coloristicamente ricca, concertazione. Da segnalare l’ottima prova dei fiati, in particolare gli ottoni. Atrettanto valido l’apporto del Coro del teatro Ventidio Basso preparato da Giovanni Farina che ha mostrato sicurezza, omogenità e potenza. Adeguati i Pueri Cantores diretti da Gian Luca Paolucci. Nei panni della protagonista, Tiziana Caruso è risultata convincente. La voce è sicura e omogenea nei vari registri, attenta a tratteggiare le complesse sfaccettature del personaggio.
Anche scenicamente la Caruso ha saputo essere un’interprete credibile e raffinata. Il tenore Francesco Pio Galasso ha delineato un Calaf vocalmente solido, ma piuttosto impacciato scenicamente. La voce è robusta, sfoggia fiati lunghi, un buon senso della fraseggio. Di particolare efficacia un bell’uso delle mezzevoci in “Nessun dorma”, che assume così un sapore più sognante e intimo. Ottima la Liù di Maria Laura Iacobellis. Con voce luminosa, la cantante dona delicatezza e senso drammatico al personaggio, cercando colori e sfumature interessanti. Andrea Concetti è un Timur di ottima levatura. Voce calda e compatta, arricchita da un fraseggio esemplare, qualità unite a una recitazione credibile e partecipe. Vocalmente eccellenti, ben amalgamati Ping (Paolo Ingrasciotta), Pang (Ugo Tarquini) e Pong (Vassily Solodkyy). Cesare Catani è un Altoum dalla voce solida e piena.
Completavano il cast Egidio Egidi (il principe di Persia) ed Erika Rombaldoni (La tentazione). A fine recita tantissimi applausi a tutto il cast, in un Pergolesi “tutto esaurito”. Foto Binci
È indetta una pubblica audizione per danzatori e danzatrici che abbiano compiuto il diciottesimo anno di età per la messa in scena del balletto per piano e voce recitante L’amore non è un gioco – La Boîte à joujoux 2019, che ha debuttato nel giugno 2019 al Napoli Teatro Festinal Italia con la coreografia e la regia di Edmondo Tucci (primo ballerino Teatro di San Carlo), da rappresentarsi in Campania per una prima edizione nel corso del 2020 e per future riprese in Italia e all’estero in collaborazione con altri Enti e Istituzioni.
Requisiti: forte base di danza classica e conoscenza delle tecniche contemporanee; altezza a partire da m. 1.65 per le donne – 1.72 per gli uomini; iscrizione Inps-Ex Enpals.
Sarà richiesta una lezione di danza classica (anche punte per le donne) e un assolo di danza contemporanea a discrezione del candidato/a di durata non superiore ai 3 minuti.
È prevista certificazione dell’esperienza artistica e il versamento di contributi previdenziali Inps ex Enpals per lo spettacolo.
Sarà redatta una graduatoria di merito dalla quale si potrà attingere per le future messe in scena, le cui condizioni potranno essere variabili. Il giudizio della Commissione giudicatrice (Edmondo Tucci, Primo ballerino Teatro di San Carlo, regista e coreografo e Maria Venuso, Storico della danza e critico teatrale, co-autrice della drammaturgia e manager artistico) è insindacabile.
L’audizione si terrà domenica 22 dicembre alle ore 15. 00 presso i locali dell’Associazione Culturale Campania Danza – via Nazionale delle Puglie 66 San Vitaliano (Na)- uscita autostradale di Nola.
Per iscriversi all’audizione i candidati dovranno far pervenire domanda redatta in carta libera con dati anagrafici e copia del documento di identità, tramite email, all’indirizzo campania.danza@libero.it e versare la tassa di iscrizione di Euro 15.00 sul cc. IT 31 D 03359 01600 1000 0016 3851 intestato alla A.C. Campania Danza, via Nazionale delle Puglie 66,San Vitaliano (Na), entro e non oltre il 20 dicembre c.a. (allegare la ricevuta nella mail).
Per informazioni
Dott.sa Maria Venuso 3286230958; campania.danza@libero.it +39 351 510 5746; Pagina Instagram e Facebook Campania Danza
Milano, Teatro alla Scala, stagione recital di canto 2019 /2020
Baritono Matthias Goerne
Pianoforte Leif Ove Andsnes
Franz Schubert:“Die Winterreise” D.911
Milano, 3 dicembre 2019
Contrariamente al programma annunciato (interamente dedicato a Schumann), Matthias Goerne, ed il suo pianista Leif Ove Andsnes, ieri sera al Teatro alla Scala hanno interpretato Die Winterreise (Il viaggio d’inverno) di Franz Schubert. Prima e graditissima sorpresa dello scrivente, che considera Die Winterreise, il miglior ciclo di Lieder di Schubert.
A pochi minuti dall’inizio del concerto si è notato che l’accordatore indugiava nel verificare il suo prezioso lavoro. Un particolare, che potrebbe sembrare insignificante, ma che dimostrava invece l’attenzione alla qualità nei minimi dettagli. Di li a poco, quando Matthias Goerne ed il suo pianista Leif Ove Andsnes fanno risuonare le prime note di Gute Nacht (il primo dei 24 lieder che compongono il ciclo su testi di Wilhelm Müller) nella sala del Piermarini (che avrebbe meritato una presenza di pubblico più nutrita), ne abbiamo la conferma. La voce di Goerne ha iniziato a inanellare ogni frase e ogni nota, in totale sintonia con lo spirito profondo di questo ciclo schubertiano: il viaggio invernale di un viandante, metafora del non facile cammino della vita umana che trova l’inevitabile conclusione nella morte. La totale sintonia tra la voce e il pianoforte ha fatto sì che ogni Lied fosse perfettamente caratterizzato senza però perdere di vista il racconto nella sua globalità. La voce di Goerne, sicura, potente, ricca di colori e sfummature ha trasmesso al pubblico il significato più profondo di ogni frase. Di certo, per assistere ad un concerto del genere, è quasi d’obbligo un minimo di preparazione da parte dello spettatore: così come la conoscenza del tedesco sarebbe la conditio sine qua per apprezzare appieno la bellezza suprema raggiunta da Goerne e Andsnes. Ma anche per chi non capisce la lingua, Goerne ha saputo, con le sue espressioni e i gesti, trasmettere il significato del lieder: le gioia, i dolori, la solitudine. Sentimenti che ciascuno di noi trova ad affrontare nell’attraversare la vita. Si arriva così a all’ultimo lied: Der Leiermann(l’uomo con l’organetto), nel quale la musica dell’organetto accompagna il viandante alla sua meta senza ritorno. Possiamo alla fine azzardare che questo ciclo rappresenti una sorta di “Passione” laica dell’uomo (Schubert stesso paragonea l’essere umano ad un dio, esattamente nel Lied n. 22 Der Mut (Il coraggio): Will kein Gott auf Erden sein, sind wir selber Götter! (Se non vi è alcun Dio sulla Terra, noi stessi siamo dei!), così come le Passioni secondo Matteo o Giovanni di Johann Sebastian Bach, lo sono sul piano religioso.
Successo pieno e convinto per questa serata che non poteva essere la migliore apertura dela stagione 2019/20 dei recital di canto scaligeri. Abbiamo assistito a quanto di meglio possa offrire la scuola e la cultura tedesca…aspettiamo, con Tosca, la risposta italiana. Foto Caroline De Bon
Genova, Teatro Carlo Felice, Stagione d’Opera 2019-2020
“IL TROVATORE”
Dramma in quattro parti di Salvatore Cammarano, da un soggetto di Antonio García Gutiérrez.
Musica di Giuseppe Verdi
Il Conte di Luna SERGIO BOLOGNA
Leonora REBEKA LOKAR
Azucena MARIA ERMOLAEVA
Manrico DIEGO CAVAZZIN
Ferrando MARIANO BUCCINO
Inez MARTA CALCATERRA
Ruiz DIDIER PIERI
Un vecchio zingaro ROBERTO CONTI
Un messo ANTONIO MANNARINO
Orchestra e Coro del Teatro Carlo Felice
Direttore Andrea Battistoni
Direttore del Coro Francesco Aliberti
Regia Marina Bianchi
Scene e Costumi Sofia Tasmagambetova, Pavel Dragunov
Luci Luciano Novelli
Nuovo Allestimento Fondazione Teatro Carlo Felice
Genova, 01 dicembre 2019
Una nuova produzione del Carlo Felice desta sempre diverse aspettative, specialmente dal punto di vista scenico, considerato lo straordinario equipaggiamento di cui la struttura dispone: senza dubbio le scene per questo “Trovatore”, curate da Sofia Tasmagambetova e Pavel Dragunov, sono degne di questa fama, proponendo una struttura medievale su vari livelli, montata su un praticabile girevole che domina de facto l’intero palco principale – non si fanno mancare merlature, ogive, cappelle, addirittura un ponte levatoio. L’ambientazione perennemente notturna – sottolineata da proiezioni amosferiche sullo sfondo – è sempre declinata sui toni della pietra, dei marroni più freddi, in un’uniformità che alla lunga, va detto, stanca, ma che sicuramente non pecca di coerenza interna. I costumi (ad opera degli stessi scenografi) pure seguono questa estenuante sobrietà cromatica, cedendo talvolta a qualche terra più chiara – ad esempio nelle scene più zingaresche – e aderendo a un modello storico generalmente cappa-e-spada, a volte più quattrocentesco, a volte quasi barocco, con qualche guizzo spagnolo e qualche altro francese.
Nulla che si faccia ricordare per accuratezza storica, né per originalità – e anche la scena unica e rotante già si è vista più volte, proprio su questo palco un paio di mesi fa, con lo straordinario “Marco Polo” di Enjott Schneider. La regia di Marina Bianchi ha certamente il merito di cercare soluzioni meno tradizionali, ma quasi mai le sue intenzioni vengono recepite nel modo migliore: trasformare il racconto iniziale di Ferrando in una scenetta con gag comiche tra soldati, ad esempio, è del tutto fuori luogo, considerato il momento d’incipit cui è affidato l’incarico non semplice di descrivere l’antefatto alla intricata vicenda; l’ostentata illuminazione di uno scheletro in una gabbia sospesa sul capo dei protagonisti, durante tutta la terza parte, ha parimenti qualcosa di inutilmente grottesco (una spettatrice adulta commenta “Che carina… mi ricorda Coco della Disney!”);
per quanto riguarda le dinamiche tra personaggi, nulla si discosta dalla più prevedibile tradizione, ossia sbracciamenti, canto in proscenio rivolto al pubblico, sventolare di mantelli e via dicendo con i soliti manierismi. È un peccato, perché “Il trovatore” offrirebbe mille spunti registici: non vederne sviluppato davvero nessuno con convinzione lascia l’amaro in bocca – e, si consenta l’inciso, leggere, nella lunga nota di regia, analogie tra l’opera e la fiction televisiva, oltre che palesi sviste su posizionamento temporale e letterario delle fonti e maldestri tentativi di “attualizzare” i personaggi e i valori di cui sono forieri, altro non fa che raddoppiare l’amaro. Alla compagnia di canto, dunque, il compito di rivivificare questa messa in scena sottotono: senz’altro il cast si assesta su un buon livello, anche se difficilmente assistiamo a performance imperfettibili.
I protagonisti maschili sanno entrambi il fatto loro e gestiscono le rispettive tessiture con maestria: il Conte di Sergio Bologna non manca di bei colori, linea di canto fluida ed appropriata, pregi che emergono bene in “Il balen del suo sorriso” – mentre in momenti di maggiore concitazione ci sembra meno a fuoco; Diego Cavazzin, al contrario, ci offre un Manrico acceso, scolpito, dalla dizione perfetta e la proiezione naturale – che gli assicurano il successo in momenti come l’attesa “Di quella pira”, ma anche in “Deserto sulla terra”; il fraseggio, tuttavia, è poco vario, tende ad assestarsi su un declamato a “tinte forti”, a scapito di una resa tridimensionale del personaggio. Un plauso va senz’altro a Mariano Buccino, un Ferrando ben più che convincente, dalla solida linea di canto e il porgere sicuro.
Le protagoniste femminili forniscono prove meno omogenee tra di loro: Maria Ermolaeva è una Azucena torrenziale, scenicamente coinvoltissima e musicalmente impressionante – la linea di canto è sapientemente gestita tra abbandoni lirici e aspetti più “demoniaci”, il fraseggio è curato e vario; non bisogna dimenticare, poi, la non facile tessitura ruolo: la Ermolaeva lo gestisce non senza difficoltà, ma, considerata la giovane età, è più che convincente, aiutata da un ruolo cui si addice il suo temperamento. La Leonora di Rebeka Lokar, invece, è più alterna, a parte la bella prova del “D’amor sull’ali rosee”, nella quale il soprano sloveno calibra magistralmente emissione, trasporto e cura della linea di canto. Per il resto la Lokar ci pare voce poco verdiana per fraseggio, ma anche per la stessa sostanza vocale, poco incline a piegarsi sulla melodia. Se in parti veriste e pucciniane l’abbiamo molto apprezzata – così come in un’Abigaille areniana di qualche anno fa – Leonora sembra andarle stretta, e non sembra coglierne appieno la macerante sofferenza, il naturale languore del “recitar cantando”.
Gli altri ruoli sono tutti interpretati correttamente (Ines da Marta Calcaterra, Ruiz da Didier Pieri, il Vecchio Zingaro da Roberto Conti e il Messo da Antonio Mannarino). Stupenda prova di sé dà il Coro del Teatro Carlo Felice, diretto dal Maestro Francesco Aliberti, sia nei momenti più ispirati (“Ah se l’error t’ingombra” o “Miserere d’un’alma”) sia in quelli più spumeggianti (il celebre coro delle incudini, “Vedi? Le fosche notturne spoglie”). La conduzione del direttore principale Andrea Battistoni trova il giusto mezzo tra estro e prudenza, e riesce a mantenere sapientemente in equilibrio le parti orchestrali e la scena – ogni tanto qualche scollamento non inficia troppo la resa complessiva di un’opera dalla massiccia presenza orchestrale, che il M° Battistoni sa garantire. A fine serata, il pubblico è fin troppo accalorato nel tributare applausi, ma non ci stupisce: la replica cui assistiamo è, infatti, una serata pensata anche per il pubblico delle scuole, e i ragazzi che affollano il teatro sono ben più che disinvolti in certe situazioni. Tuttavia l’effetto è senz’altro quello di un chiaro apprezzamento per lo spettacolo, che certamente avrà giovato agli interpreti.