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Richard Strauss (1864 – 1949) – 14 “Die ägyptische Helena” (1928)

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Richard Strauss (Monaco di Baviera 1864 – Garmisch-Partenkirchen 1949)
Die ägyptische Helena (Elena egizia) op. 75, opera in due atti su libretto di Hugo von Hofmannsthal
Prima rappresentazione: Dresda, Staatsoper, 6 giugno  1928.
Dopo l’incursione nel teatro borghese con Intermezzo del quale Strauss aveva scritto il libretto interrompendo l’ormai consolidata collaborazione con Hofmannsthal, i due artisti ritornarono a lavorare insieme a un nuovo progetto nel 1923. In una lettera di Hofmannsthal del 4 febbraio di quell’anno si legge, infatti:
“Caro dr. Strauss
Ho trascorso in perfetta pace tutto gennaio qui in campagna, scendendo in città di quando in quando per non più di mezza giornata. Ora devo fare un breve viaggio in Germania, e a Garmisch leggerò la mia nuova commedia a Pallenberg.
Il pensiero di procurarLe un soggetto operistico nuovo ed efficace (da trovare è solo il soggetto, il resto viene da sé), di carattere leggero, qua e là in stile di conversazione, non l’ho accantonato per indifferenza o addirittura per disaffezione – La prego di credermi. Al contrario, caro amico, mi auguro di tutto cuore di portare a compimento questo lavoro – che dovrebbe essere – non appena sia trovato il filo – attraente e leggero. Oggi, infatti, più che mai saprei quello che conta, e sarei capace di trattare tutto con mezzi concisi e con agile eleganza. È però singolare che un tempo sapessi trovare con tanta facilità un soggetto appropriato – oggi mi è molto più difficile. Se a tarda sera Ella mi guardasse da fuori attraverso la finestra, mi vedrebbe tutto alacre e solerte: mentre sfoglio avanti e indietro le opere di Luciano, esamino vecchi racconti di Stendhal e Musset, scorro i libretti di Scribe – c’è da sperare che un impegno tanto umile e fermo sia compensato alla fine con una buona idea. Non che le idee mi manchino – ma tutte appartengono alla sfera del teatro recitato. In questo campo le trame e gli abbozzi si stanno accumulando fino a formare piccole torri” (Epistolario, cit., pp. 513-514).
Trovare un soggetto per una nuova opera non fu semplicissimo, anche perché i desiderata di Strauss erano particolarmente esigenti, come si evince da un’altra lettera di Hofmannsthal del 27 febbraio dello stesso anno, nella quale il poeta fa riferimento a una commedia di argomento tardo-antico, graziosa e anche un po’ spinta, con molto parlato, con qualche cerimonia allegra e graziosa, una festa o una cosa del genere (Ivi, p. 515). Strauss, inoltre, avrebbe voluto che questa nuova opera avesse alcuni elementi che si richiamassero all’operetta, come si può evincere sempre da un’altra lettera del 1° aprile del 1923:
“Escogitare per l’operina leggera un breve terzo atto fine e brillante (da collegare direttamente alla fine del II) non mi spaventa affatto – nel mio lavoro il difficile mi sembra solo l’invenzione dello stile – ma in ciò mi fanno da guida il Rosenkavalier da una parte e dall’altra l’Ariadne e il Bürger als Edelmann – e poi sono tutte cose da trattare con buon umore e con una certa spregiudicatezza.
Ciò che Ella mi ha detto di recente sull’abisso insuperabile che c’è tra la Sua musica, anche quando Ella scrive musica semplicissima, e l’operetta corrente –non c’era nemmeno bisogno di dirlo – si ha già torto a parlare insieme dell’una e dell’altra” (Ivi, pp. 515-516).
È nel mese di aprile che i due artisti definirono il soggetto dell’opera ed è sempre Hofmannsthal a rivelarcelo in un’altra importantissima lettera del 14 settembre 1923, nella quale si parla in modo dettagliato della nuova opera:
“Già da tempo pensavo di donarLe la gioia della Helena nell’anno in cui Ella fa sessant’anni e io cinquanta. Ma è incerto, si sa, tutto ciò che dipende dall’ispirazione. In aprile, quando Le ho raccontato il soggetto, con l’intuito giusto Ella ha detto: il primo atto è buono e mi piace – il resto ancora non è pronto. A quel soggetto ho sempre dedicato i miei pensieri nei momenti buoni – e ora possiedo dentro di me il testo completo; il secondo atto è buono, almeno quanto il primo – il terzo è cortissimo: lì si arriva alla piena conciliazione, nel mezzo di una festa. Ma è meglio che lo dica subito: più ci penso, più sento la necessità di fondere il terzo atto col secondo. È questo il finale solenne che ci vuole per il secondo e gli dà la giusta tensione – e poiché nella festa c’è anche un profondo significato per i personaggi – ecco che esso fornisce a tutto l’atto uno scopo intrinseco, lo scopo a cui tende – nella dinamica e nella psicologia. – Ne risulta la forma insolita di due atti molto densi e di durata pressoché uguale. Il tempo complessivo è inferiore a quello del Rosenkavalier ma supera l’Ariadne; ciò che ho in mente è più o meno la lunghezza di un’opera di Puccini.
I personaggi principali del I atto li ricorda: la maga egizia Aithra, amante di Poseidone; Elena e Menelao. Il secondo atto si svolge in un’oasi del deserto vicino all’Egitto – lì la coppia degli sposi ringiovaniti è stata trasportata dalla maga per una breve luna di miele – è un angolo meraviglioso della terra, dove non è giunta ancora la notizia della guerra di Troia, diffusasi in tutta l’Europa, e neppure il nome di Elena: qui entrano in scena due personaggi: lo Sceicco (il principe) dell’oasi e il suo figlio più giovane. Entrambi si innamorano di Elena. Senza voler stabilire nessun impegno, e solo per chiarire la mia idea dei personaggi, trascrivo qui una distribuzione delle parti:
Elena – Jeritza.
Menelao (che è cavalleresco e attraente al massimo) – Oestvig: (Tauber?).
Aithra – Schöne.
Lo Sceicco anziano – Duhan.
Lo Sceicco giovane – Jerger.
Lo stile deve essere leggero; in certe parti vicino alla conversazione del Rosenkavalier; ma non arriva mai al tono serio di Ariadne (opera). Ci sono poi numerose occasioni per duetti e per terzetti. Se il testo non mi riesce male, queste pagine liriche saranno inconfondibilmente diverse dalla leggerezza e dall’eleganza psicologica della conversazione. Quanto più lieve, quanto più spensierato sarà il Suo animo, tanto meglio verrà il lavoro; in ogni lavoro un artista tedesco è già più pesante di quanto dovrebbe. […]
Quasi ogni giorno aggiungo qualcosa di apprezzabile al progetto” (Ivi, pp. 519-520).
Se non fu facile trovare il soggetto, non meno complesso appare ricostruire le diverse fonti d’ispirazione, tra le quali, oltre ai Dialoghi di Luciano, citati, in precedenza, dallo stesso Hofmannsthal, figurano certamente il Faust di Goethe, dove Elena è assunta a simbolo della classicità, e la sua “sorella maggiore” omerica che, nel IV libro dell’Odissea, appare a Telemaco in viaggio alla ricerca del padre Ulisse. Nel libretto di Hofmannsthal queste fonti sono sapientemente mescolate con una tradizione risalente a Erodoto, a Stesicoro e alla tragicommedia Elena di Euripide, in cui si immagina che la mitica moglie di Menelao sia stata nascosta da Ermes in Egitto e che al suo posto sia stata inviato a Troia un fantasma dotato di respiro, fatto con un pezzo di cielo, […] un vuoto miraggio, creato sempre dal dio. Tutto questo materiale è trattato da Hofmannsthal con un tono leggero che guarda all’operetta, La belle Hélène di Offenbach, trovando in Strauss una totale condivisione d’intenti, come si evince da questa richiesta avanzata dal compositore nella lettera dell’8 settembre 1923:
“Spero che a Garmisch mi aspetti Helena e spero che ci siano graziosi inserti di balletto; anche qualche coro elegante di elfi e di spiriti sarebbe benvenuto”. (Ivi, p. 518)
Hofmannsthal, in realtà, consegnò il libretto del primo atto solo il 15 ottobre 1923, ma Strauss non fu particolarmente rapido nel comporre la partitura che fu ultimata l’8 settembre 1927, ben quattro anni dopo l’inizio del lavoro. A contendersi la prima furono i teatri di due importanti città, Vienna e Dresda, con la seconda che alla fine ne ospitò il debutto il 6 giugno 1928 sotto la direzione di Fritz Busch e con la regia di Otto Erhardt, futuro biografo di Strauss; l’opera ebbe un grande successo e l’esecuzione fu particolarmente ammirata, nonostante il cast non corrispondesse a tutti i desiderata del compositore. Strauss, infatti, aveva scritto la parte di Helena per il soprano Maria Jeritza già protagonista di altre premières di sue opere, ma le elevate pretese economiche di quest’ultima indussero il teatro ad ingaggiare Elisabeth Rethberg che, in quest’occasione, fu affiancata da Curt Taucher (Menelao), Annelise Petrich (Ermione), Maia Rajdi (Aithra), Friedich Plaschke (Altair).
L’opera –  Atto primo
Come l’Elektra si era aperta nel nome di Agamennone, l’Elena Egizia esplode nel segno di Menelao, la cui ansia viene rappresentata dalle angoscianti battute iniziali. La scena si svolge in una piccola isola di fronte all’Egitto, dove la ninfa Aithra (Etra), introdotta da un’orientaleggiante tema dell’oboe, si rivolge, in una scrittura intrisa anch’essa di elementi di ascendenza orientale, al suo compagno Poseidone che spera possa tornare presto da lei (Das Mahl ist gericht / Il banchetto è pronto). Subito dopo una Conchiglia onnisciente, accompagnata da una forma di moto perpetuo dei violoncelli e da un disegno ondeggiante che richiama appunto il moto ondoso del mare, informa la ninfa che Poseidone è trattenuto presso gli Etiopi e sarà inutile attenderlo (Drei Tauben / Tre colombe). Aithra è disperata e una sua inserviente le propone di bere il succo di loto, una pozione magica che serva a far dimenticare. Nel frattempo la Conchiglia racconta che sta vedendo su una nave Menelao sul punto di uccidere furtivamente la moglie Elena. Aithra, allora, animata dalla speranza di poter ospitare questi due illustri personaggi nella sua reggia, scatena, avvalendosi dei suoi poteri magici, una tempesta che possa farli naufragare sulla sua isola. La descrizione della tempesta, rappresentata da Strauss con una scrittura onomatopeica alla quale non è estranea nemmeno l’eco di elementi tematici che si richiamano all’agitazione di Menelao, non è un interludio sinfonico, come nelle opere precedenti, in quanto la ninfa Aithra sovrintende alla tempesta con il suo canto a volte spiegato a volte franto. Mentre gli echi della tempesta si spengono in solitari e lontani tuoni rappresentati dal cupo suono dei timpani, i due mitici coniugi spaesati fanno il loro ingresso nel palazzo della ninfa. Introdotto dal suono cupo e interrogativo del clarinetto basso a cui risponde il clarinetto “soprano” a cui è affidato un tema usato per accompagnare le parole (Bei jener Nacht / Da quella notte) cantate da Elena quasi ad evocare il passato che incombe sul loro rapporto, Menelao si chiede chi sia (Wo bin Ich? / Chi sono io?), certamente deluso perché tradito da quella moglie per la quale aveva scatenato la guerra di Troia col solo desiderio di riprenderla con sé dopo il rapimento perpetrato da Paride da lui ucciso. Nel lungo “duetto”, che si fa più concitato nella parte conclusiva, si apprende che Menelao non ha rinunciato al suo proposito di vendicare il tradimento della moglie e, quindi, alla sua intenzione di ucciderla, mentre Elena, ancora innamorata del marito, si libra in liriche dichiarazioni d’amore spesso accompagnate dai nobili archi che riprendono e sviluppano il tema di Bei jener Nacht. Menelao, invece, rimane freddo alle parole della donna come il colore algido dei legni che accompagna i suoi interventi più prosastici e tendenti al parlato. Senza farsi vedere Aithra ascolta la conversazione dei due coniugi e, irritata con il re di Sparta, decide di aizzargli contro i folletti affinché di notte lo perseguitino e lo deridano. Questi sembrano materializzarsi nei guizzanti disegni degli archi che accompagnano le parole della ninfa. La loro apparizione, scandita dall’intervento di un coro di Elfi, confonde Menelao al punto tale da indurlo a uscire fuori per inseguire due ombre che ai suoi occhi allucinati appaiono come Elena e Paride in fuga. Rimasta sola con Elena, Aithra si presenta svelandole anche dove si trovi (Du bist in Poseidons Haus / Tu sei nella reggia di Poseidone). Mentre Menelao è tormentato dai folletti, dei quali si sentono le risa in eco, la ninfa, che mostra una sconfinata ammirazione per la regina greca al cui lirismo sembra uniformarsi in molti passi di questo “duetto”, decide, facendo ricorso sempre ai suoi poteri magici, di ridonarle la primitiva bellezza. Subito dopo, sempre in una scrittura lirica di sapore orientaleggiante, le offre la pozione della Dimenticanza che la fa addormentare. Accompagnate da un brevissimo interludio sinfonico caratterizzato da alcuni temi precedentemente esposti tra cui quello guizzante dei folletti, alcune ancelle della ninfa pongono Elena sul letto di Aithra, dove viene vestita con uno splendido abito.
Ancora in stato confusionale, Menelao rientra nella sala del palazzo (Im weissen Gewand / In bianchi abiti), dove Aithra lo informa che è suo ospite (Fürst von Sparta, du bist mein Gast / Principe di Sparta, tu sei mio ospite). Subito dopo la ninfa fa bere al suo illustre ospite un succo di loto, aggiungendo che sua moglie giace addormentata nel suo letto. Menelao, tormentato ancora dai folletti guizzanti e adirato, viene placato da Aithra che gli racconta la falsa storia secondo la quale Elena non era mai stata a Troia con Paride, dal momento che era stata ospitata nel castello di suo padre dove aveva dormito sognando Menelao. L’eroe acheo, però, non è convinto nonostante la pozione e non crede ai suoi occhi, quando, dopo un breve interludio sinfonico che accompagna il raggiante ingresso di Elena, vede la moglie. Non sa, infatti, se si trova di fronte alla moglie o a un fantasma. L’ingresso di Elena è marcato quasi da un’aura di sacralità con la presenza solenne dell’organo e degli elfi che l’accolgono intonando un coro (O Engel / O angelo) dalla ieratica scrittura omoritmica, mentre Aithra, per convincere Menelao, non ancora del tutto persuaso, ripete la storia della sostituzione facendo, nel contempo, capire ad Elena cosa aveva raccontato al marito. Questo terzetto, all’interno del quale appaiono anche gli Elfi, si caratterizza per una scrittura contrappuntistica estremamente raffinata. Nonostante il tema iniziale dell’ira di Menelao riecheggi più volte in orchestra, l’eroe acheo si lascia convincere e alla fine i due coniugi si riappacificano. La donna, tuttavia, appare preoccupata perché teme che Menelao, una volta solo con lei nella reggia di Sparta, possa essere di nuovo aggredito dai fantasmi del passato. Aithra, allora, trova una nuova soluzione: decide, infatti, di far trascorrere ai due coniugi una seconda luna di miele in una tenda incantata ai piedi delle montagne dell’Atlante e, per far ciò, li addormenta dopo aver raccomandato ad Elena di bere lei stessa e di far bere al marito la pozione della dimenticanza. La scena assume contorni wagneriani con momenti d’intenso cromatismo e una scrittura orchestrale particolarmente curata dal punto di vista contrappuntistico. L’atto si chiude in un’atmosfera magica su un rassicurante accordo di mi maggiore.
Atto secondo
Il tema, che aveva caratterizzato il primo duetto tra Elena e Menelao, qui riproposto in una forma eroica grazie alla perorazione orchestrale, apre il secondo atto che si svolge in una tenda incantata. Qui Elena è raggiante per questa seconda luna di miele che il fato le ha concesso di vivere (Zweite Brautnacht / Seconda luna di miele). Questo momento solistico, caratterizzato dai temi già uditi nel primo atto, segna quasi l’apoteosi di Elena attraverso anche una scrittura orchestrale particolarmente raffinata con la celesta che evoca le stelle della notte e il violino che sottolinea le parole mi ha trasformato in una fanciulla. Un tema contorto, già udito nel primo atto a marcare i dubbi di Menelao e qui affidato al corno inglese, segna il risveglio dell’eroe che appare spaesato (Wo ist das Haus? / Dov’è la casa?). In realtà Menelao crede di vivere una realtà diversa da quella di cui è protagonista; crede, infatti, di aver ucciso Elena e di avere accanto una specie d’illusione con la quale non vuole intrattenere alcun rapporto. A nulla valgono le parole di Elena che vengono sopraffatte dal tema dell’ira di Menelao il quale, da parte sua, vorrebbe andarsene, ma è fermato da Altair, principe delle montagne, inviato da Aithra per rendere omaggio all’illustre coppia (Mir ist befollen).
Introdotto da un’icastica e onomatopeica cavalcata orchestrale, l’uomo, come del resto tutti i suoi guerrieri, s’innamora di Elena al cui fascino non resiste nemmeno il figlio Da-ud, quasi incantato come l’accompagnamento orchestrale che sottolinea le sue parole che si librano in un episodio lirico. Strauss avrebbe voluto affidare questo personaggio a un mezzosoprano en travesti, ma Hofmannsthal s’impuntò perché il compositore scrivesse una parte maschile. Menelao, sempre in stato confusionale, crede di vedere Paride nel giovane (Paris ist da / Ecco Paride).
Perdutamente innamorato di Elena, Altair, desiderando di restare solo con la donna, organizza una caccia in onore di Menelao al quale dà, come compagno, il figlio Da-ud che, pur innamorato di Elena, è trattato dalla donna come un fanciullo; la caccia, però, risveglia brutti ricordi nell’animo di Menelao che, proprio al suo ritorno da una caccia, non aveva più trovato la moglie. Rimasta sola, la donna viene raggiunta subito da Aithra (Schweig! / Taci!) per avvertirla dell’errore commesso dalla sua serva la quale non le aveva dato solo il filtro dell’oblio, ma anche quello della memoria. Tagliato nella parte conclusiva nell’edizione in ascolto, il dialogo tra le due donne, piuttosto frammentario dal punto di vista musicale, non mostra particolari spunti se non la ripresa di elementi cromatici utilizzati in precedenza dal compositore ma qui non trattati in modo tale da conferire unità all’insieme. Approfittando dell’assenza di Menelao, Altair si presenta da Elena e, per conquistarla, le offre un banchetto in suo onore, ma trova il netto rifiuto della donna; anche questo passo, che, tuttavia, si distingue per una raffinata scrittura sinfonica, non brilla per unità e soprattutto per aperture liriche (uno dei rari momenti è, infatti, lo squarcio lirico affidato alle due donne), nonostante la perizia contrappuntistica del compositore nel riproporre molti dei temi ascoltati in precedenza.
Un breve interludio sinfonico, costruito interamente sul tema utilizzato nel primo duetto conduce a un nuovo confronto tra i due coniugi. Elena accoglie il marito dolcemente (Mein Gelibeter! Menelas! / Mio amato! Menelao!), ma questi, su un misterioso tremolo degli archi, appare spaesato per la sovrapposizione nella sua mente di realtà diverse. Alla fine di questo passo, nel quale Strauss sembra abbandonare la sua vena sinfonica a favore di una scrittura più intimistica con ampi squarci lirici, giungono i servi di Altair per annunciare in modo solenne e marziale che durante la caccia al falco e alla gazzella, simboli rispettivamente del maschile e del femminile, Menelao ha ucciso Da-ud avendolo creduto Paride. Elena, allora, cerca di far capire a Menelao ciò che ha fatto e alla fine gli offre la pozione del ricordo che l’eroe accetta nella speranza che sia un veleno ritenendo che solo la morte possa ricongiungerlo alla moglie ritenuta morta per sua mano. La bevanda fa risvegliare nell’eroe i sentimenti di vendetta che l’orchestra rappresenta icasticamente con la ripresa del tema iniziale dell’opera, ma è fermato dall’abbagliante bellezza di Elena che musicalmente si esprime con il lirico tema che aveva contraddistinto il loro primo “duetto”. Menelao non riesce a resistere alla bellezza della moglie della quale l’orchestra sembra rappresentarne l’apoteosi grazie alla ripresa di temi già esposti nel duetto del primo atto qui rielaborati in una scrittura cromatica di ascendenza wagneriana. Annunciato da una breve ripresa dell’onomatopeica cavalcata che aveva introdotto il suo primo ingresso nel secondo atto, Altair entra in scena per tentare ancora una volta di separare i due coniugi con la forza (Zu mir das Weib! A me quella donna!). Questo suo tentativo risulta vano sempre per l’intervento di Aithra che si avvale dell’aiuto dei guerrieri di Poseidone. Nel frattempo sempre Aithra conduce al cospetto dei due coniugi la loro figlioletta Ermione su un etereo e puro accompagnamento degli archi che sembra rappresentare il candore della famiglia appena ricomposta. Ormai la serenità coniugale è raggiunta e i due coniugi possono cantare omoritmicamente e all’ottava un inno all’amore, per la verità piuttosto convenzionale, con il quale l’opera si conclude.


Napoli, Teatro Bellini: “La bella addormentata” di Fredy Franzutti

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Napoli, Teatro Bellini, Stagione 2019-2020
“LA BELLA ADDORMENTATA”
Balletto in tre atti e un prologo
Musica Pëtr Il’ič Čajkovskij
Coreografia Fredy Franzutti
Scene Francesco Palma
Aurora, la principessa NURIA SALADO FUSTÈ
Ernesto, il principe antropologo MATIAS IACONIANNI
Roberto, il padre di Aurora ALESSANDRO DE CEGLIA
Carabosse, la strega ANDREA SIRIANNI
Jardavan, la fata / zingara CAROLINA SANGALLI
Silvia, la madre di Aurora BEATRICE BARTOLOMEI
Uccellini azzurri ALICE LEONCINI e VALERIO TORELLI
Balletto del Sud
Direttore Fredy Franzutti
Napoli, 6 dicembre 2019
La bella addormentata in Salento di Fredy Franzutti, per Il Balletto del Sud,  porta al Teatro Bellini di Napoli la bellezza di uno spettacolo di qualità che sa riconfermarsi un successo a ogni replica. Fin dalla sua creazione nel 2000 (della quale è rimasto tutto rigorosamente intatto, senza modifiche o ripensamenti) questa riscrittura del grande balletto del repertorio classico creato da Marius Petipa sulla splendida musica di Pëtr Il’ič Čajkovskij nel 1890 (Teatro Mariinsky di Sanpietroburgo, Carlotta Brianza prima interprete ed Enrico Cecchetti nei ruoli di Carabosse e Uccello azzurro) è da sempre un successo di pubblico e di critica. Non una voce fuori campo per una geniale intuizione del coreografo che, per amore dei propri ricordi e della sua terra, ridona al grande classico a noi noto dalla versione della fiaba di Charles Perrault una veste tutta originale.
Ambientata in Salento, il nucleo concettuale della principessa dormiente ereditato da Lo cunto de li cunti (o Pentamerone) di Giambattista Basile trasferisce il momento cruciale del dramma, ossia la puntura “col fuso di una tessitrice”, nella puntura della tarantola, innestando la visione antropologica che Franzutti ha voluto offrire al pubblico sul fenomeno del tarantismo. Molto ci sarebbe da dire al riguardo. Prodotto figlio del suo tempo, questo balletto resta gradevolmente attuale perché contiene la forza espressiva del dramma, non solo nella gestione della vicenda e nello sviluppo dei personaggi, che cambiano e assumono pesi differenti, quanto per la forma coreografica che diviene essa stessa sostanza drammaturgica. Cosa vuol dire? In primo luogo, lo studio delle fonti e la novità dell’idea hanno sviluppato alcuni ruoli e modificato il carattere di altri: il padre avanza prepotentemente in scena soprattutto a livello mimico, divenendo il pilastro della narrazione e definendo i momenti di passaggio principali, passando dal comico al tragico e viceversa; la madre è al contempo sposa e genitrice, protagonista importante della vicenda in quanto molto presente in scena, con identico peso attribuito a danza e mimica; la Fata dei Lillà è una zingara, una madrina la cui magia è legata al mistero popolare. Carabosse, mimo en travesti, è invece una sorpresa continua: esordisce nel prologo in maniera classica apparendo in scena avvolta da nebbia densa, piegata, gobba, grottesca nel suo muoversi in grand plié alla seconda, come si muoverebbe un grosso ragno (un anticipo visivo da offrire inconsciamente al pubblico della tarantola che farà arrivare?) e si impone subito su tutti. Si impadronisce della scena e racconta in maniera impeccabile quello che sedici anni dopo sarebbe successo; torna nel primo atto a offrire il curioso animaletto in dono alla principessa Aurora e la sua posizione, ancora gobba, finisce per diventare eretta nel trionfo della sua cattiveria. Qui è evidente l’ambiguità di una creatura che non è né uomo e né donna o forse lo è entrambi insieme. Una inquietante realtà indefinita che, proprio per questo, incute ancora più paura in una società superstiziosa che, sia pure in parte evolutasi dopo la guerra, vive ancora di convenzioni. Dopo cinquant’anni, all’arrivo del giovane antropologo Ernesto – una sorta di illuminato studioso che squarcia le tenebre della superstizione – rinuncia a combattere sì, come ci dice il libretto, per l’età avanzata, ma muta inaspettatamente tenore di comportamento e questa è una soluzione che il pubblico non solo non si aspetta, ma che acclama a gran voce diviene la chiave di volta per la riuscita, poiché la “risata” entra inattesa in un dramma “serio”. Il personaggio, interpretato dal 2006 al 2012 dal grande mimo Lindsay Kemp, diviene così il principale motore dell’azione che il pubblico aspetta di vedere in scena, fino all’esilarante finale in cui, invitato/a alla festa di nozze, afferra il bouquet lanciato dalla sposa.
Letteratura, tradizione, innovazione, intelligente gestione delle fonti e antropologia fanno di questo lavoro un importante riferimento per chi studia la messa in scena danzata. Ma perché la forma sarebbe sostanza drammatica? Perché Franzutti non solo sa raccontare, ma sa farlo fare anche alla tecnica: persino nei divertissement virtuosistici (che sono tanti) il modo di condurre le sequenze coreografiche, la straordinaria musicalità finanche nei leitmotiv coreutici più ossessivi (developpés e pirouettes impostate dalla quarta posizione) la fluidità delle sequenze valorizza la storia e non interrompe la continuità narrativa. La stasi avviene invece nel momento in cui si innestano sezioni di repertorio, come l’Adagio della rosa e il primo solo di Aurora, ma anche il Passo a Due dell’Uccello azzurro: una compagnia dalla evidente qualità tecniche come il Balletto del Sud non ha bisogno di dimostrare di poter sostenere il grande repertorio, dando adito a una sorta di inconscio complesso nei confronti delle grandi Compagnie storiche, perché talvolta queste ultime non offrono spettacoli superiori o corrispondenti alle aspettative. I danzatori diretti da Franzutti si presentano al pubblico perfettamente omogenei nella tecnica e nella musicalità, sia pure con fisicità diverse che tuttavia il coreografo riesce a utilizzare al meglio nelle caratterizzazioni. Il Passo a due delle nozze, da lui ridisegnato, fluisce come tutto il suo “scrivere sulla scena” e non ci dispiace affatto che non abbia riproposto quello arcinoto di Petipa. Efficacissime le citazioni a effetto come la danza di Pulp fiction nella scena della festa o gli elementi di danza modern jazz che riportano alla mente un determinato periodo storico anche in ambito coreutico.
La gestione della partitura ha dimostrato inoltre due cose importanti: il gusto sapiente di Fredy Franzutti nel saper reimpastare un tessuto musicale creato ad hoc per determinati numeri coreutici senza snaturarli e la grande versatilità drammaturgica della musica di Čjajkovskj, la cui struttura sa prestarsi  con naturalezza alla nuova situazione scenica senza difficoltà.
Ma passiamo agli interpreti: plauso sicuro ad Alessandro De Ceglia nelle vesti del padre, convincente e molto gradevole nell’attorialità che dimostra; altrettanto felice Beatrice Bartolomei nel ruolo della madre, simpatica e ammiccante, dalle linee lunghissime e la tecnica pulitissima. Ottimo Andrea Sirianni nei difficili panni di Carabosse, che ha incantato il pubblico e suscitato sonore approvazioni dando il giusto corpo alle intenzioni del personaggio. Molto bravi Alice Leoncini e Valerio Torelli nel Passo a Due dell’Uccello azzurro (lei apprezzata Aurora in altre repliche), estremamente difficile e a tratti forzato per mettere in evidenza le qualità tecniche dei solisti. La zingara Carolina Sangalli ottima nella tecnica e nella figura, è apparsa impenetrabile nell’espressione del volto. Con ogni probabilità i meno brillanti nel ruolo – non per tecnica ma per fisionomia – sono stati i due protagonisti: la bellissima prima ballerina Nuria Salado Fusté, dotata di un corpo longilineo e dalle linee affusolate, è stata una principessa Aurora pulita e precisa ma la sua maturità non è apparsa convincente nel suggerire l’aspetto di una fanciulla appena sbocciata; Matias Iaconianni nei panni di Ernesto non è invece dotato di quel carisma che ci si aspetterebbe dal ruolo. Ottima prestazione di tutto il corpo di ballo, con particolare lode a Ovidiu Chitanu e Alessandro Cavallo. Le scene di Francesco Palma hanno contribuito ad arricchire l’azione.
Poco silenzioso il pubblico (purtroppo il pubblico della danza si conferma il meno rispettoso e spesso il meno attento alle cose importanti di una messa in scena) ma molto caloroso negli applausi finali: in proposito c’è da sottolineare quanto il coreografo non risparmi i propri danzatori neanche a questo punto della serata, dati i pirotecnici passaggi da una quinta all’altra e le serie sfrenate di pirouettes e grandi salti, in una esplosione pirotecnica di virtuosismi.
Una programmazione nel fine settimana (soprattutto una pomeridiana) avrebbe determinato il sold out. Non sono mancati importanti incontri legati all’evento, come la conferenza tenutasi all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli dal titolo Danzare la Fiaba – Dal genere letterario agli allestimenti più significativi,  dedicato a questa messa in scena specifica. 
Vogliamo terminare questa recensione con un pensiero di Lindsay Kemp, che riassume al meglio il contenuto di tutto quello che è stato visto e detto: «Penso che ci sia ora un momento di stasi. I coreografi sono entrati in un trip e non riescono a trovare una nuova svolta. Gli spettacoli che vedo, anche se gradevoli, sono tutti molto simili tra loro. Sembra che tutta Europa abbia studiato nella stessa scuola. Notava la stessa cosa Pina. Infatti mi piace il lavoro che fa Fredy perché è molto diverso dagli altri. È narrativo, usa costumi e scene, si diverte a fare uno spettacolo. Anche se apparteniamo a due mondi diversi il suo modo di lavorare è molto simile al mio. La sua creatività è brillante e non conosce la noia […] Alcune volte dichiaro che lui è il mio figlio italiano […]». In effetti, in un panorama coreografico in cui si privilegia l’astrazione e la sofferenza, con tutto il rispetto per la validità di questi due aspetti, è bene non perdere di vista che il grande pubblico vuole soprattutto capire quello che vede e partecipare all’azione, vuole gioire. Perché la radice  della danza, nella sua etimologia greca, è legata alla gioia. E in un mondo già così pieno di sofferenza, saper tradurre in danza la gioia è cosa più che gradita. (foto Federica Capo)

“Il pirata” al Teatro Real di Madrid

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Madrid, Teatro Real, Temporada 2019-2020
“IL PIRATA”
Melodramma in due atti su libretto di Felice Romani
Musica Vincenzo Bellini
Ernesto GEORGE PETEAN
Imogene SONYA YONCHEVA
Gualtiero JAVIER CAMARENA
Itulbo MARIN YONCHEV
Goffredo FELIPE BOU
Adele MARÍA MIRÓ
Orquesta y Coro Titulares del Teatro Real
Direttore Maurizio Benini
Maestro del Coro Andrés Máspero
Regia Emilio Sagi
Scene Daniel Bianco
Costumi Pepa Ojanguren
Luci Albert Faura
Videoproiezioni Yann-Loïc Lambert
Nuova produzione del Teatro Real in coproduzione con il Teatro alla Scala di Milano
Madrid, 6 dicembre 2019
«Per noi tranquillo un porto / l’ampio oceàno avrà». Il mare crudele, il sole che si offusca, l’altare, la tomba, il figlio amato di uno sposo detestato e l’amore inestinguibile per un condottiero divenuto pirata: è difficile reperire tanti elementi della poetica romantica, oltre alla necessaria ambientazione medioevale, all’interno di un libretto anteriore al 1827. E così, Il pirata fu davvero il primo melodramma romantico italiano, di soli quattro anni successivo alla massima espressione del neoclassicismo in musica, ossia della rossiniana Semiramide. La coproduzione del teatro in cui vide la luce e dove fu rappresentato lo scorso anno giunge ora al Teatro Real di Madrid, nella cui storia non era mai comparso: nella capitale spagnola fu eseguito per l’ultima volta nel 1843, ma nei teatri del Príncipe e del Circo, sette anni prima che il Real si inaugurasse. Dopo il Trovatore dello scorso luglio, Maurizio Benini torna al Real per dirigere l’opera di Bellini con una concertazione molto accurata, tempi piuttosto morbidi e predilezione per le nervature ritmiche, anche all’interno dei disegni più melodici. Il direttore può del resto contare su un terzetto magnifico di voci, che garantisce all’opera uno dei più grandi successi della storia recente del Real. Il messicano Javier Camarena, che la stampa spagnola già esalta come «rey en el Teatro Real», è l’interprete perfetto per il personaggio di Gualtiero; con lui si può finalmente ascoltare un cantante dalla piena personalità vocale, capace di restituire al tenore la dignità di protagonista dell’opera, in parallelo e non al disotto del soprano. Sin dall’impervia cavatina «Nel furor delle tempeste» Camarena modula l’emissione senza alcuna forzatura, anzi con leggera attenuazione del volume in corrispondenza delle note più alte, cosicché l’acuto si manifesti naturale nelle risonanze e nel fiato (una prodezza di cui oggi sono capaci pochissimi). Il timbro chiaro e vibrante si associa a un porgere sempre molto accurato, ma al tempo stesso costantemente virile, giacché la voce di Camarena può soddisfare sia le esigenze del belcanto sia l’espressività romantica e drammatica del personaggio (carattere composito che si apprezza soprattutto nelle cabalette). Sempre più entusiasmante nel corso del dramma, Camarena riceve un’ovazione dopo l’ultima aria, «Tu vedrai la sventurata», un capolavoro di mezze voci, emissione suadente e pianissimo. Anche il soprano bulgaro Sonya Yoncheva (che fu Imogene alla Scala nel 2018) è ottima interprete della sua parte, presentandosi all’inizio come assorta in pensieri lontani dalla realtà, e acquistando progressivamente vigore grazie alla ricomparsa dell’antico amante. Tuttavia, l’impostazione vocale della Yoncheva è assai diversa da quella del tenore, poiché nella sua emissione si percepiscono lo sforzo e la sofferenza, soprattutto in corrispondenza del registro acuto, sotto forma di piccole incrinature del timbro; se si tratta di un accorgimento finalizzato a rappresentare una donna destinata alla distruzione psicologica e alla perdita della ragione, si rivela felice e molto apprezzato dal pubblico; se invece fa parte della linea di canto del soprano, lascia qualche perplessità. Yoncheva, infatti, nel tentativo di far coesistere vocalmente la donna oppressa e sventurata ma anche la madre preoccupata per l’avvenire del figlio e per la sua propria reputazione morale, cede alla tentazione di imitare il languore, l’elegia, la forte determinazione e il temperamento di colei che ripropose il personaggio di Imogene alla fine degli Anni Cinquanta, lasciando in eredità documenti discografici imprescindibili, ma che tentare di riproporre oggi è quanto meno pericoloso (anche se la maggior parte del pubblico ne subisce inconsapevolmente il fascino). Comunque sia, i due duetti tra Gualtiero e Imogene sono di una coerenza musicale straordinaria. Ernesto, il baritono antagonista, è interpretato dal rumeno Gorge Petean, dalla voce di timbro chiaro e molto fluida nell’emissione; forse un po’ limitato nella proiezione – almeno rispetto alla coppia protagonista – l’artista può contare su una linea di canto solida e su una tecnica molto corretta (adatta, dunque, alla tessitura acuta della sua parte). Ernesto è infatti il condottiero militare che deve esprimere marzialità assoluta, sin dall’esordio tutto metastasiano («Sì, vincemmo, e il pregio io sento / di sì nobile vittoria»), e Petean si disimpegna con molta naturalezza in questo compito (anche grazie al direttore, giacché la seconda parte del I atto risente di questo nuovo elemento militare, di marcia e di atmosfera bellica, fino al meraviglioso concertato finale). Molto buono il basso spagnolo Felipe Bou nella parte di Goffredo, al pari del soprano catalano María Miró come Adele, mentre un po’ incerto nella linea di canto è il tenore bulgaro Marin Yonchev come Itulbo. Un encomio va riservato al Coro del Teatro Real preparato da Andrés Máspero, impeccabile in entrambi i blocchi femminile e maschile. Il mare, le nozze, la guerra (quella delle battaglie di terra) sono i tre grandi temi visivi che vanno sovrapponendosi nel corso del I atto per presentare i personaggi principali e che caratterizzano lo spettacolo di Emilio Sagi. La scena realizzata da Daniel Bianco è molto semplice, visto che gioca soprattutto sui riflessi e sulle corrispondenze determinate da grandi pannelli mobili riflettenti, laterali e superiore, prescindendo però da qualunque altro apparato od oggetto. La regia può così concentrarsi sulla recitazione dei personaggi principali o sui movimenti del coro. Pur senza essere collegati a una specifica epoca storica, i costumi di Pepa Ojanguren puntano sull’eleganza dei particolari e la valenza rappresentativa, in perfetta coerenza con gli intenti della regia: la casacca del pirata (di una sobrietà fortunatamente lontana da ogni oleografismo cinematografico), gli abiti nuziali del coro femminile, la divisa di gala di Ernesto, l’abito a lutto di Imogene nella scena finale. Quest’ultima è senza dubbio la più bella di tutto lo spettacolo, con il fondale occupato da un’immensa vela che discende dall’alto e che converge su Imogene, diretta al catafalco con il feretro di Ernesto; muovendosi, la vela si trasforma in labaro nero che ricopre la tomba e la vista stessa della donna (corrispondenza perfetta con il libretto: «Oh, sole! ti vela / di tenebra oscura»), mentre il patibolo per Gualtiero è semplicemente evocato («il palco funesto, / per lui s’innalzò»). Il pirata è anche il melodramma che si chiude non secondo le esigenze narrative del libretto – dato che Bellini decise di tralasciare l’ultima scena con l’assedio dei pirati e il suicidio del protagonista – bensì con la sublimazione della follia di Imogene quale catastrofe tragica culminante, che assorbe ogni attenzione della musica e dello spettatore.   Foto Javier del Real © Teatro Real de Madrid

Venezia, Teatro La Fenice: un trionfale “Don Carlo” ha inaugurato la nuova Stagione Lirica

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Venezia, Teatro La Fenice, Lirica e Balletto, Stagione 2019-2020
DON CARLO”
Opera in quattro atti. Libretto di Joseph Méry e Camille Du Locle, dalla tragedia “Don Karlos, Infant von Spanien” di Friedrich Schiller, traduzione italiana di Achille De Lauzières e Angelo Zanardini.
Musica di Giuseppe Verdi
Filippo II, re di Spagna ALEX ESPOSITO
Don Carlo, infante di Spagna PIERO PRETTI
Rodrigo, marchese di Posa JULIAN KIM
Il grande inquisitore MARCO SPOTTi
Il frate LEONARD BERNAD
Elisabetta di Valois MARIA AGRESTA
La principessa Eboli VERONICA SIMEONI
Tebaldo, paggio d’Elisabetta BARBARA MASSARO
Il conte di Lerma LUCA CASALIN
Un araldo reale MATTEO ROMA
Voce dal cielo GILDA FIUME
Deputati fiamminghi SZYMON CHOJNACKI, WILLIAM CORRÒ, MATTEO FERRARA, ARMANDO GABBA, CLAUDIO LEVANTINO, ANDREA PATUCELLI
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Myung-Whun Chung
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
Regia Robert Carsen
Scene Radu Boruzescu
Costumi Petra Reinhardt
Light designer Robert Carsen e Peter Van Praet
Assistente alla regia e movimenti coreografici Marco Berriel
Allestimento Opéra national du Rhin – Strasbourg e Aalto-Theater Essen
Venezia, 3 dicembre 2019
Per la terza volta consecutiva la Fenice inaugura la propria stagione lirica con un capolavoro verdiano, affidandone la direzione musicale a Myung-Whun Chung, ormai di casa nel teatro veneziano, dove ha inaugurato anche l’attuale stagione sinfonica. Dopo Un Ballo in maschera e Macbeth è la volta di Don Carlo, per cui è stato scritturato un giovane cast, nel quale spiccano tre prestigiosi debutti: del tenore Piero Pretti nel ruolo eponimo, di Alex Esposito nel ruolo del basso Filippo II, del baritono Julian Kim nel ruolo del marchese di Posa. Responsabile degli aspetti visivi dello spettacolo è un regista attualmente considerato tra i più originali e innovativi, Robert Carsen, tornato in laguna, per riproporre, in prima italiana, l’allestimento da lui ideato per l’Opéra National du Rhin di Strasburgo e l’Aalto-Theater di Essen. La tenacia e la professionalità dei dirigenti, delle maestranze, degli artisti, impegnati in questa produzione hanno consentito, grazie anche ad aiuti esterni, che lo spettacolo inaugurale andasse regolarmente in scena, nonostante i danni riportati dal teatro in seguito all’acqua alta eccezionale, che ha colpito Venezia il 13 novembre e nei giorni seguenti. Opera dalla genesi particolarmente travagliata, il Don Carlo fa ancora discutere, in ragione delle almeno quattro versioni realizzate dall’autore: la prima, in francese, intitolata Don Carlos è un grand-opéra in cinque atti con i ballabili, andato in scena a Parigi nel 1867; la seconda (Napoli, 1872) è in buona sostanza la traduzione in italiano della precedente; un’ulteriore versione italiana, con il titolo di Don Carlo – mancante del primo atto e delle danze – fu predisposta, circa dieci anni dopo, per la Scala di Milano, dove fu allestita nel 1884, per essere di lì a poco sottoposta a revisione – risultando di nuovo in cinque atti, ma in italiano e senza i ballabili – e rappresentata a Modena nel 1886. Critici ed esecutori non sono concordi nel dare la preferenza all’una o all’altra partitura, comunque l’edizione milanese del 1884 viene tutt’ora largamente rappresentata, soprattutto per la sua maggiore concentrazione drammatica e le minori difficoltà, legate alla sua produzione. Tale è l’odierna versione attualmente proposta dalla Fenice, dal cui cartellone il Don Carlo era assente da ben ventotto anni. Cifra distintiva della concezione registica di Carsen è senza dubbio l’essenzialità, l’antiteatralità, il rifiuto di una sontuosa messinscena“in costume”, che avrebbe creato una distanza estraniante rispetto allo spettatore, per concentrarsi sul dramma dei singoli personaggi, sulle loro emozioni e, in definitiva sulla musica, che ne è sublime cassa di risonanza. La scena è dominata dal grigio scuro e dal nero. In un vasto interno, spoglio e cupo, quasi sempre illuminato da una luce livida, si muovono i personaggi, insieme a gruppi di preti e suore, tutti rigorosamente vestiti di nero, compreso lo stesso Filippo II, che nella scena dell’autodafé indossa vestimenti papali con una tiara al posto della corona. Spiccano, in tanta cupezza, solo i candidi gigli che le damigelle-suore lasciano cadere durante la Canzone del Velo. I costumi – di foggia moderna – sono, dunque, abbondantemente attinti dall’abbigliamento ecclesiastico ufficiale, a sottolineare il potere totalizzante ed oppressivo della Chiesa, in uno spettacolo, che si caratterizza per alcuni suoi tratti shakespeariani: dal conflitto tra individuo e potere alla meditazione sulla caducità della vita. Nella prima scena dell’opera – nel Convento di San Giusto – il regista canadese ripropone il monologo di Amleto con don Carlo in meditazione, mentre contempla un teschio; lo stesso teschio che compare anche sul tavolo da lavoro del padre Filippo in scene successive. Si tratta di una messinscena indubbiamente coerente nel suo rigore, che ha una sua ragion d’essere nella ricerca di una drammaturgia anticonvenzionale. Qualche perplessità, invece, hanno suscitato certe forzature del libretto, seppur nel dichiarato intento di dare maggiore coerenza alla trama. Non ci riferiamo tanto al modo in cui Carsen interviene sull’effettivamente poco credibile lieto fine – il Frate-Carlo V, anziché il salvatore del nipote, si rivela un sicario dell’Inquisizione, freddando con un colpo di pistola sia Filippo che don Carlo – quanto sulla sua rivisitazione della figura di Rodrigo, trasformato in una bieca spia del Sant’Uffizio, che fa il doppio gioco, per sete di potere. Alla fine del terz’atto, si capisce che la sua uccisione è avvenuta per finta, visto che il presunto assassinato si rialza per stringere la mano al Grande Inquisitore, mentre nella scena conclusiva dell’opera lo si vede apparire con il capo cinto dalla corona regale. Peccato che tutto questo sia incompatibile con la musica: in vari momenti-chiave dell’opera ricorre, brillante di nobiltà, il tema dell’amicizia tra l’Infante di Spagna e il marchese di Posa … Comunque, lo spettacolo risulta coinvolgente e ben congegnato, nonché – a parte qualche timido accenno di dissenso finale, che non poteva essere rivolto che alla regia – gradito al pubblico. Sul versante musicale, la lettura di Chung, in linea con la visione di Carsen, ha sempre fortemente sottolineato la forza espressiva di quei passaggi in cui Verdi commenta con evidente partecipazione i diversi climi emotivi, che si succedono nell’opera, con il validissimo supporto dell’orchestra, che nel capolavoro verdiano assume un’importanza maggiore che in passato con il suo spessore sinfonico. Chung si rivela un vero mago, se si considera la sua estrema cura nel rendere la ricchezza timbrica dell’armonia, in cui si coglie l’influenza francese, mirabilmente coniugata alla più genuina potenza espressiva verdiana: una scrittura spesso piuttosto densa, che non ha impedito alle voci di imporsi, interagendo proficuamente con l’orchestra.Quanto al Cast, una particolare menzione merita il baritono Julian Kim (Rodrigo), che con una voce rotonda ed omogenea, una naturalezza nell’emissione, che si è imposta su ogni difficoltà tecnica, è stato forse il mattatore della serata, complice anche il particolare rilievo dato al personaggio da Carsen. Meno convincente – ma si tratta pur sempre di una prestazione ragguardevole per controllo della voce e fraseggio – il Filippo II del basso Alex Esposito, penalizzato da un timbro, che non ha quelle tonalità scure, atte a conferire un’aura regale al personaggio. Analogamente non abbastanza tenebroso e ieratico si è rivelato il Grande Inquisitore, offerto dal basso Marco Spotti, alle prese con una tessitura profonda, che non esclude affatto puntature acute. Autorevole è risultato il tenore Piero Pretti, che con timbro puro, ha reso virilmente le lacerazioni interiori come la passione politica dell’Infante di Spagna. Di rilievo la prova del soprano Maria Agresta, quale Elisabetta di Valois, che ha dominato la sua parte, dimostrando una tecnica sorvegliatissima, che le ha consentito di brillare nelle più violente accensioni drammatiche come nei momenti di più struggente lirismo, mostrandosi maestra nelle mezzevoci. Valida è risultata anche la prova del mezzo soprano Veronica Simeoni, anche se talora la sua voce non appariva dotata del peso necessario ad una parte di così intensa drammaticità. Più che dignitosi Il frate, austero, di Leonard Bernad, lo spumeggiante paggio Tebaldo di Barbara Massaro e la struggente Voce dal cielo di Gilda Fiume, oltre al nobile sestetto dei deputati fiamminghi. Pregevole la prova del coro istruito da Claudio Marino Moretti. Straordinario successo di pubblico per Chung e i cantanti. Foto Michele Crosera

Venezia, Teatro La Fenice: Myung-Whun Chung, Nona di Mahler

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Venezia, Teatro La Fenice, Stagione Sinfonica 2019-2020
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Myung-Whun Chung
Gustav Mahler:Sinfonia n. 9 in re maggiore
Venezia, 6 dicembre 2019
Quarto appuntamento della Stagione Sinfonica 2019-2020 della Fenice. Sul podio, Myung-Whun Chung che, in alternanza con le ultime recite del Don Carloi – un exploit, per direttore e strumentisti, che non è da tutti! –, ha guidato l’orchestra del teatro veneziano nell’esecuzione della Nona Sinfonia di Gustav Mahler. Il concerto fa parte di un progetto pluriennale di rilettura dell’opera del compositore austriaco portato avanti dalla Fenice insieme al maestro coreano: la Nona viene proposta dopo la Quinta (2017) e la Seconda (2019), e sarà seguita, nel 2020, dalla Terza.
Mahler, a cui nell’estate 1907 era stata diagnosticata una grave disfunzione cardiaca, cominciò a lavorare alla Nona nel giugno 1909 nella quiete della residenza estiva di Dobbiaco. La stesura fu portata a termine nel marzo 1910 a New York. La prima esecuzione, postuma – Mahler era scomparso il 18 maggio 1911 – fu diretta da Bruno Walter a Vienna il 26 giugno 1912.
Ultimo capolavoro sinfonico compiuto del catalogo mahleriano, la Nona fu accolta con molte perplessità dalla critica sia per l’inusuale struttura sia per le dissonanze e le bitonalità, di cui è letteralmente disseminata. Ma Schonberg e Berg ebbero parole di elogio per l’immensa, estrema fatica di Mahler, che rappresenta, per le sue arditezze armoniche, il trait d’union tra Mahler e la Scuola di Vienna, annoverando fra i suoi tratti innovativi anche la frammentazione della struttura tematica e la graduale e progressiva disgregazione del suono, che giunge ormai totalmente smaterializzato alla fine della lunga coda del movimento finale: le ultime note sono suoni isolati che svaniscono nel nulla.
La sinfonia è divisa nei tradizionali quattro movimenti ma, diversamente dalla consueta articolazione dei tempi, i due movimenti estremi sono lenti e hanno un carattere luttuoso, mentre i due centrali sono rapidi, rivelando un tono ironico e dissacratorio. Qualcosa di analogo avviene in una partitura per altri versi diversissima, ma accomunata dall’intimo legame con tragiche vicende personali dell’autore, vale a dire la Sinfonia Patetica” di Čajkovskij. Non è comunque opportuno enfatizzare le motivazioni autobiografiche – di cui peraltro era convinto Alban Berg, che vedeva nella Nona “la morte in persona” –, stando almeno alle argomentazioni di Henry-Louis La Grange, che nella sua biografia mahleriana, ne sostiene l’infondatezza. Per non parlare dell’opinione di Schönberg che, in riferimento alla Nona, nega ogni infessione patetica, soggettiva, cogliendovi la capacità, da parte di Mahler, di oggettivare tramite intuizioni di natura puramente musicale l’esperienza della morte e del distacco, cui peraltro fanno riferimento le scarne annotazioni – poi omesse nella stesura definitiva – presenti nell’abbozzo della partitura.
A questa concezione ci è sembrata affine anche la lettura di Chung, che ha teso ad evidenziare e, talora, esasperare il trascendentale costruttivismo di questa partitura, il suo sguardo profetico verso il futuro, il suo essere innanzi tutto una straordinaria architettura musicale. Magistrale, con la complicità di un’orchestra di solisti, la sua interpretazione dell’ipertrofico Andante comodo iniziale, che – costruito sull’intervallo di seconda maggiore discendente, lo stesso che ritroviamo alla fine del Lied von der Erde si svolge lento e maestoso, attraverso una serie di motivi brevi, frantumati, ognuno caratterizzato da un timbro diverso, in un fluire che appare fra l’incerto e il sospeso e in un continuo, ossessivo alternarsi fra il modo maggiore e quello minore, fino a spegnersi in pianissimo degli archi in pizzicato, dell’arpa, dell’ottavino e del flauto: una sonorità evanescente prossima al silenzio, che chiude questo sofferto commiato alla vita.
Un tono più lieve e giocoso ha dominato nei due movimenti centrali. Dapprima il Ländler di graffiante ironia di, che segna l’apoteosi di quel gusto per il grottesco, che è cifra distintiva in Mahler, una danza tradizionale in tre quarti, antesignana del tipico valzer viennese, già usata nel secondo tempo della Prima sinfonia, ma qui distorta a tal punto da diventare quasi una marcia funebre. Poi il magistrale Rondò-Burlesca – aperto da un tema dissonante eseguito dai fiati, poi trattato nella forma di una doppia fuga – caratterizzato da un vitalismo ritmico e un denso contrappunto, che ne fa un vertice della complessità polifonica mahleriana, oltre che da una strumentazione, che scompone il discorso in una frazionatissima melodia di timbri, concorrendo a suscitare incredibili effetti grotteschi.
L’orchestra ha offerto ancora il meglio di sé nello struggente, esteso movimento finale – un congedo dalla, che si fa via via più rassegnato –, il cui attacco, con l’intervento, carico di tensione degli archi, riporta in tutta evidenza all’analogo movimento della Nona sinfonia di Bruckner, uno dei maestri di Mahler al conservatorio di Vienna. L’influenza bruckneriana si coglie non solo nell’estatica maestà del primo tema, ma anche nel modo in cui si svolge il movimento, che Chung ha proposto in tutta la sua lentezza e dilatazione: l’idea tematica principale sembra crescere su stessa attraverso infinite varianti, creando l’effetto di un percorso ascensionale, che rimanda appunto agli adagi delle sinfonie bruckneriane della maturità. Indimenticabile, per la sensibilità e la concentrazione dimostrate – non solo dagli esecutori – l’ultima parte di questo movimento, il cui materiale tematico, una volta arrivato al culmine dell’intensità, viene sottoposto a un processo di progressiva dissociazione e assottigliamento, fino alle soglie del silenzio. Successo veramente strepitoso per Chung – salutato da qualche ovazione – e l’orchestra, di cui hanno meritato particolare riconoscimento gli esecutori, impegnati – sempre impeccabilmente – in interventi solistici.

New York, Metropolitan Opera: “Pikovaja dama” (The queen of spades)

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New York, Metropolitan Opera, Season 2019-2020
“PIKOVAJA DAMA” (The Queen of Spades)
Opera in three acts by Modest Ilyich Tchaikovsky, from the story by Alexander Pushkin.
Music by Pyotr Ilyich Tchaikovsky
Tchekalinsky PAUL GROVES
Sourin RAYMOND ACETO
Count Tomsky/Plutus ALEXEY MARKOV
Ghermann YUSIF EYVAZOV
Prince Yeletsky IGOR GOLOVATENKO
Lisa LISE DAVIDSEN
The Countess LARISSA DIADKOVA
Pauline/Daphnis ELENA MAXIMOVA
The Governess JILL GROVE
Masha LEAH HAWKINS
Master of Ceremonies PATRICK COOK
Chloë MANé GALOYAN
Tchaplitsky ARSENY YAKOVLEV
Naroumov MIKHAIL SVETLOV
Catherine the Great SHEILA RICCI
Piano Solo LYDIA BROWN
Orchestra and Chorus of the Metropolitan Opera
Conductor Vasily Petrenko
Chorus Director Donald Palumbo
Production Elijah Moshinsky Revival Stage Director Peter McClintock
Set and Costume Designer Mark Thompson
Lighting Designer Paul Pyant
Choreography John Meehan
New York City, 5 December 2019
The current revival of Tchaikovsky’s finest opera was designed around certain singers about five years ago—the Met signs contracts five years in advance, a preposterous system that takes no consideration of the unpredictability of the human voice at that range of years. By the time it opened last week, the tenor had canceled, first, three of six performances, then all of them—a relief considering his atrocious vocal estate last year—and the soprano had decided Lisa no longer lay in the best part of her voice. Therefore we got the New York debut of Norwegian soprano Lise Davidsen as Lisa and last year’s Dick Johnson, Yusif Eyvazov, as Ghermann. These two singers led a performance last Thursday (the third of the run) in which every singer in the opera’s enormous cast was of exceptional quality. There were, vocally and dramatically, no weak points in this swiftly-paced and multi-facted grand opera and ghost story, with its eighteenth-century pastiches and scenes of scenic glory, plus a focused and minimalist macabre.
Davidsen is drawing most of the headlines. She has a gleaming, metallic, full-bodied soprano that sounds exciting when she sings from the rear of the stage and explosive when she comes down front. She can make it as loud as you like, and seems tireless. She is a tall, slim, handsome woman easily able to sing an amorous duet on her knees as the staging requires. How she would handle the great Wagner and Strauss and Janacek roles is the question that filled all minds—she possesses the gleaming top with considerable more assurance than Christine Goerke or Nina Stemme, but has she the weight of middle voice where Wagner tends to linger? Tchaikovsky’s Lisa is a neurotically passionate Russian heroine, and she daydreams high before exploring her soul in lower-lying strophes. Too, the Russians around me were very impressed with her diction, and even thought her a native speaker of their language—I assume she can handle German as well.
But Lisa does most of her singing in two or three scenes of this opera. It is the haunted, desperate, half-mad Ghermann who focuses the piece—and he’s central to all seven of its scenes. It’s a role for a dramatic tenor who holds intensity in reserve, prepared to let it out at all times. Jon Vickers and Placido Domingo did well in this role, and the handsome, old-fashioned Elijah Moshinsky production was headed by the turbulent Gegam Gregorian when it was new—but more lyric tenors like Nicolai Gedda have gotten away with it. Tchaikovsky knew how to let a voice perform, act, sing suavely or passionately without crowding the moments with heavy instrumentation. He knows how to stand back and let a lyric voice sway us. Nonetheless, Azerbaijani tenor Yusif Eyvazov, who coaxed his attractive instrument through La Fanciulla del West last year, gives an astounding performance as the haunted hero. It is never easy to be sure if Ghermann is obsessed with greed or by yearning for the socially superior Lisa—does he just want money, or does he want money because he wants her? In Pushkin’s story, the girl is a cipher and a tool, but the Tchaikovsky brothers give her and Ghermann souls along with tunes. Eyvazov plays all desperate determination. He lingers and looms in the crowd scenes, wearing jet black—everyone else is in black-and-white until the dead Countess appears in Act III in a crimson ball gown, singed by hellfire along the hem. The handsome costumes and narrow sets are by Mark Thompson. Eyvazov holds the imperial spaces of the Met stage magnetically when he is alone upon them with the demons that lurk in his singing. His voice never loses its attractive quality when he whelms Lisa with his perhaps insincere lovemaking, or the Countess with his raging need for her secret. (Is the secret of the Three Cards real? Does she know what he is talking about? She says nothing; she stares, and dies. Her return from the Dead may be his hallucination). Passion does not undermine Eyvazov’s lyricism, and his hysteria never transgresses bel canto. This is a major role, and he gives a star-making performance in it.
Larissa Diadkova, whom I first heard as a Met Azucena twenty years ago, has sung most of the great Russian mezzo roles at the house. Singers often save the Countess for their last years, when only shreds of voice remain—you can get away with that—it may even be more appropriate. I heard Resnik, Rysanek, Söderström and Anny Schlemm. But Diadkova has plenty of voice and plenty of power, and her Grétry aria is no faded whisper. Too, she has always been a superb actress, and her flailings at the apparition in her bedchamber are as convincing as her malevolent emergence from hell, a glowing hole in the floor.
Jill Grove is effective as the Governess, Elena Maximova unextraordinary as Polina (the role that made Olga Borodina a star when the production was new). Igor Golovatenko’s Prince Yeletsky sounded first rate, but he does not look remotely like Dmitri Hvorostovsky, so for once one understood why Lisa is unimpressed by his longing for her. Alexey Markov and Paul Groves were excellent in the necessary roles of the officers whose ghost story drives their foolish comrade Ghermann off his nut. Weak or awkward link in this array was there none.
Vasily Petrenko understands the romantic, neurotic underpinnings of Tchaikovsky’s delicate scoring and hurtling, predestined, pointed weapon of a plot. He led a sweeping, high-colored performance of this surging melodrama, and he did not stint quality in the “breathers,” the intrusions of a more relaxed sound, Russian parlor song, children’s soldier-march, Mozartean serenata, Grétry aria, the mourning song of the dead Countess that Ghermann hears—or thinks he hears—from his room in the barracks. All of these musics attempt to tell the background story, ordinary people living ordinary lives, background to the insanity of Ghermann and the folly of Lisa, and they sounded not ordinary but sparkling. There’s an enjoyable world out there, if only Ghermann were sane enough to reach it. The Met has given a masterpiece just the high-class treatment it deserves. Photo: Ken Howard / Met Opera

Teatro Comunale di Sassari: “Il Trovatore”

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Teatro Comunale di Sassari, Stagione Lirica 2019
“IL TROVATORE”
Dramma in quattro parti di Salvadore Cammarano
Musica di Giuseppe Verdi
Il Conte di Luna DARIO SOLARI
Leonora CHIARA ISOTTON
Azucena SILVIA BELTRAMI
Manrico ANTONIO CORIANÒ
Ferrando FRANCESCO LEONE
Ines MARIA BAGALÀ
Ruiz ENRICO ZARA
Un vecchio zingaro STEFANO ARNAUDO
Un messo CLAUDIO DELEDDA
Orchestra dell’Ente Concerti Marialisa de Carolis
Coro dell’Ente Concerti Marialisa de Carolis
Direttore Alberto Maniàci
Maestro del coro Antonio Costa
Regia Roberto Catalano
Scene Emanuele Sinisi
Light designer Fiammetta Baldiserri
Nuovo allestimento dell’Ente Concerti “Marialisa de Carolis”
Sassari, 6 dicembre 2019
Trovatore è tornato. Trovatore, come Traviata, Lucia… il vero melomane omette gli articoli, parla delle sue opere come se fossero amici/amiche, e il capolavoro verdiano è uno dei migliori amici per i veri amanti del melodramma. Scontata quindi dopo quindici anni l’attesa per l’opera nella stagione sassarese nonostante i veri melomani siano ormai merce rarissima. Meno scontato il caloroso successo riportato da questa edizione che ha accontentato quasi tutti, grazie a un solido cast e una buona direzione scenica e musicale. Le difficoltà nell’allestimento del titolo sono note, a cominciare da un palcoscenico con quattro protagonisti, tutti di uguale e notevole peso vocale e interpretativo; per non parlare del basso cui è affidata la bella scena introduttiva, certamente inadatta a un qualunque routinier. Il Trovatore arriva inoltre al centro della cosiddetta Trilogia popolare che sancisce la maturità dell’autore e in qualche maniera rappresenta il confine e il punto di non ritorno per il melodramma romantico tradizionale: La Traviata, solo pochi mesi dopo, mostrerà nuove strade che porteranno il teatro lirico italiano allo splendido canto del cigno.
In conseguenza di ciò è difficile la scelta del taglio interpretativo in un’opera che presenta una strutturazione collaudata ma un’espressione nuova, evidente già in Rigoletto, essenziale e sempre meno astratta che costituirà d’ora in avanti la cifra stilistica ben riconoscibile dell’autore. In troppi allestimenti la problematica si risolve in maniera semplicistica con medioevo da soldatini, temperatura alta e tenore muscolare, esaltando gli aspetti pugnaci (in realtà mai visibili in scena) e passionali. È stata invece in questo caso apprezzabile la finezza dello spettacolo curato da Roberto Catalano, con le scene di Emanuele Sinisi, in cui l’essenzialità del nuovo allestimento non è stata solo dovuta all’inevitabile budget, ma anche a una logica coerente in tutti gli aspetti della messa in scena. L’unico aspetto decorativo era costituito da un fondale prospettico, un colonnato geometrico con punto di fuga centrale che sembrava evocare una distanza metafisica nel tempo e nello spazio. Pochi altri elementi astratti evocatori del passato (un taglio orizzontale modificabile che ampliava o restringeva gli spazi per i cambi scena o le entrate, un tappeto di cenere, una libreria) caratterizzavano il palcoscenico; il tutto in un elegante bianco e nero, appena temperato da alcuni bruni e con studiatissime macchie di colore per certi costumi o il rosso evocatore del rogo, fuoco archetipo che domina la vicenda. Fondamentale in ciò l’ottimo lavoro sulle luci di Fiammetta Baldiserri e la linearità neo-rinascimentale dei costumi di Ilaria Ariemme, assai più belli e funzionali delle solite mascherate cappa e spada. Una volta tanto si è vista anche una regia coerente con l’allestimento, con pochi spontaneismi naturalistici e una grande cura delle geometrie sul palcoscenico, sia negli spostamenti che nell’occupazione degli spazi. Per la verità poteva essere curata meglio la scena dello scambio di persona da parte di Leonora, ma in generale l’utilizzo di una scenografia neutra, indicativa, allusiva, tende a spostare l’accento in una dimensione inconscia sicuramente più suggestiva per uno spettatore contemporaneo appena smaliziato.
Alberto Maniàci ha diretto in coerenza con questa visione, concertando con attenzione e senza lasciarsi prendere la mano da una scrittura dove l’effetto grossolano è sempre in agguato; sono state infatti ammirevoli le sfumature nei numerosi passi alternati e il controllo delle dinamiche, sempre ben bilanciate col palcoscenico. Buono anche nei momenti più insidiosi l’insieme che appariva ben “piantato”, senza la sgradevole sensazione di precarietà ritmica che spesso si rileva in certe produzioni, il tutto con una buona fluidità agogica e senza rigidità espressive. Chiaramente gran parte del merito va all’Orchestra dell’Ente che a fine stagione appare amalgamata ed equilibrata in tutte le sue sezioni, particolarmente cresciuta soprattutto nella fusione degli archi rispetto all’ultima produzione.
Si, ma… com’era il Do della Pira? Alla fine metà delle valutazioni degli spettatori in quest’opera vengono spese sulle celebri puntature apocrife “di petto”, croce e delizia per tutti i tenori che si cimentano nel ruolo del titolo. Va detto prima di tutto che non si trattava di Do, ma di Si: la celebre cabaletta è stata chiaramente abbassata di mezzo tono. Ma va detto che ciò non ha tolto nulla alla buona prestazione di Antonio Corianò, dotato di splendido colore vocale, bella presenza e ragguardevole temperamento. Certamente non è travolgente come certi riferimenti discografici che, più a torto che a ragione, costituiscono il termine di paragone; però nella logica della produzione è perfettamente ben inserito, grazie anche a una buona tecnica dove resta solo da affinare la fluidità nella zona del passaggio. Bisogna ricordare inoltre che del creatore del ruolo, Carlo Baucardé, esiste una cronaca coeva che ne loda la dolcezza dell’emissione e l’uso abile del falsetto: pur sapendo poco di lui parrebbe quindi abbastanza chiaro che Manrico potrebbe essere l’ennesimo caso di un celebre ruolo la cui “tradizione drammatica” è stata enfatizzata da interpreti ben più recenti dell’originale e secondo canoni probabilmente lontani dalle intenzioni dell’autore.
Ottima anche la Leonora di Chiara Isotton, ammirevole sia nelle belle mezze voci che nella sicurezza del registro acuto su tutte le dinamiche. Tacea la notte placida è stata cesellata con gusto e raffinata espressione, ma in generale tutta l’interpretazione è stata da incorniciare per sontuosità vocale, tecnica e varietà di accenti. Però il ruolo più impegnativo dell’opera è forse quello del Conte di Luna, sia per l’impervia scrittura vocale che per lo spessore drammatico richiesto dal personaggio; Dario Solari risolve abilmente la parte in crescendo, dopo alcuni lievi cedimenti nell’intonazione circoscritti alle scene iniziali, sfruttando maggiormente l’ottima tecnica piuttosto che la dinamica vocale, che appare talvolta un po’ ristretta. Il balen del suo sorriso è apparsa comunque ben cantata, espressiva, con un magnifico legato e la tendenza a inserirsi naturalmente nella timbrica orchestrale, senza alcuna forzatura. Azucena è uno dei grandi mezzosoprani verdiani e il personaggio centrale dell’intreccio: Silvia Beltrami impersona un ruolo che conosce perfettamente con grande professionalità e grazie a dei mezzi vocali importanti. Di tutto il cast, forse per la consuetudine col personaggio, appare l’elemento maggiormente legato a un taglio tradizionale dell’opera, sia nell’atteggiamento vocale che in quello scenico. Intensa in particolare l’esecuzione di Stride la vampa, anche se il vibrato talvolta eccessivo tende a sporcare l’intonazione e la linea del canto. Una citazione particolare va fatta infine per Francesco Leone che, pur senza l’imponenza e il colore vocale richiesto dalla parte (ma con tutti i “gruppetti” di semicrome perfettamente a posto), ritaglia un Ferrando insolitamente giovane e fresco, poco consueto ma comunque efficace in una parte interessante e decisamente curata per un comprimario. Più che corretta la prestazione di Maria Bagalà nei panni di Ines e sono apparsi professionali e sicuri Enrico Zara (Ruiz), Stefano Arnaudo (un vecchio zingaro) e Claudio Deledda (un messo).
Gagliarda infine la prestazione del Coro dell’Ente preparato da Antonio Costa: preciso, puntuale, ricco di bella vocalità specialmente nei registri maschili medio-acuti, ha ben interpretato con carattere tutti i vari brani dedicati, ma con qualche cedimento dell’intonazione negli interventi fuori scena.

“Madama Butterfly” al Teatro Filarmonico di Verona

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Domenica 15 dicembre 2019 alle 15.30 al Teatro Filarmonico debutta un nuovo allestimento di Madama Butterfly, coprodotto da Fondazione Arena e l’Opera Nazionale croata, per la regia di Andrea Cigni e la direzione di Francesco Ommassini. Col capolavoro pucciniano si concludono la stagione 2019 della Fondazione Arena di Verona e il percorso nella grande Opera italiana tracciato dalla rassegna autunnale Viaggio in Italia.Il soprano giapponese Yasko Sato a sarà  Cio-Cio San sul palcoscenico veronese (15, 19, 22/12) alternandosi con Daria Masiero (17/12). Debutta al Filarmonico il tenore Valentyn Dytiuk (15, 17/12) che insieme a Raffaele Abete (19, 22/12) dà voce a F. B. Pinkerton; tornano i baritoni Mario Cassi (15, 22/12) e Gianfranco Montresor (17, 19/12) come Console Sharpless accanto alla Suzuki di Manuela Custer e al Goro di Marcello Nardis. Completano il cast Lo zio Bonzo di Cristian Saitta, Il Principe Yamadori di Nicolò Rigano, Lorrie Garcia come Kate Pinkerton, Salvatore Schiano di Cola come Commissario imperiale, Maurizio Pantò come Ufficiale del registro, Sonia Bianchetti (15, 22/12) e Emanuela Simonetto (17, 19/12) come Madre di Cio-Cio-San e Manuela Schenale come Cugina di Cio-Cio-San. Il Coro, preparato da Vito Lombardi, insieme all’Orchestra della Fondazione Arena, è guidato dal maestro Francesco Ommassini, più volte apprezzato sul podio dei complessi artistici veronesi.
Repliche:
martedì 17 dicembre, ore 19.00 – giovedì 19 dicembre, ore 20.00 – domenica 22 dicembre, ore 15.30

 


New York, Metropolitan Opera: “Akhnaten”

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New York Metropolitan Opera, Season 2019-2020
“AKHNATEN”
Opera in three acts by Philip Glass
Queen Tye DISELLA LÁRUSDÓTTIR
Nefertiti J’NAI BRIDGES
Akhnaten ANTHONY ROTH COSTANZO
High Priest of Amon AARON BLAKE
Horemhab WILL LIVERMAN
Aye RICHARD BERNSTEIN
Amenhotep III ZACHARY JAMES
Orchestra and Chorus of the Metropolitan Opera
Conductor Karen Kamensek
Chorus Director Donald Palumbo
Production Phelim McDermott
Set and Costume Designer Tom Pye
Lighting Designer Bruno Poet
Choreography and Juggling Sean Gandini
New York City, 4 December 2019
New York was introduced to Philip Glass’s opera, Akhnaten, by the New York City Opera back in 1984, shortly after the work’s premiere in Houston. The NYCO presentation was static and tedious. Company maestro Christopher Keene and an orchestra accustomed to traditional opera didn’t have a handle on the style of Philip Glass, and the performers, led by countertenor Christopher Robson, made nothing interesting or involving of the score. The production was basic and boring. The score, like most Glass scores, was inactive. Many writers have been saying this fall, apropos of the sellout hit that Akhnaten has proven to be at its Metropolitan Opera debut, that it’s a “disgrace” the opera has not appeared in New York in 35 years, but this is, to say the least of it, unfair. We were given nothing much, back then, to like, and Glass, in three tries, did not have a winner at the Met until Satyagraha in 2008. Satyagraha (which some say is part of a trilogy with Akhnaten and Einstein on the Beach) was designed for the Met by Phelim McDermott, who has returned with Akhnaten. It is a case of an ideal interpreter encountering a composer who is not every opera-goer’s meat. The triumph this fall has been as much McDermott’s as Glass’s.
Other things have changed as well in the many years since Einstein on the Beach was a succès scandaleuse back in 1976. Has Glass learned how to apply his idiosyncratic and far from dramatic style of composition to action, or has the New York operatic audience begun to take pleasure in his meditative longueurs? It’s a bit of both, I think. The triumph of Satyagraha paved the way for the Met to essay Akhnaten, and near to hand was the McDermott production that had proved a success at both the English National Opera and the Los Angeles Opera. Too, countertenor Anthony Roth Costanzo, a much admired figure in New York, at the Met and in many smaller projects, was both able and eager to perform the title role. It is really no surprise that the Met waited so long to address the work; it has arrived at precisely the right time, as is certainly proved by the sellout of the run, the popularity of the HD broadcasts, the return of the opera to the Met now abruptly scheduled for two years hence.
But Akhnaten—like most Glass operas—still has no action, no plot, in the traditional sense. Arpeggios are repeated ad infinitum; the chords change majestically as one scene ends and another begins, and the stiffening and relaxing of tension are significant moments, but within each moment, each harmonized chord, nothing active occurs. Glass’s arpeggios are harmonized when more than one singer joins in—but they are usually singing the same words or syllables to identical melodies; these are duets or trios in the style of Handelian opera seria, one emotion, two characters. They are not the active confrontational duets and trios and sextets of the nineteenth century, where things happen in the course of a multi-person movement. In Akhnaten, issues are mentioned if not addressed, tableaux proceed. There is an arc to the opera: the new pharaoh succeeds to the throne, proclaims his religious revelation, builds his new capital city (in order to disempower the priests and temples based in older cities), sings the Hymn to the Sun that the real Akhnaten bequeathed us, plus a love duet with his queen and a family fugue with their six daughters. And then, because he refuses to address Egypt’s problems as a power or to fight Egypt’s many enemies, he suffers invasion and rebellion. He and his city are destroyed. A new king (Tut) is enthroned. In an epilogue set in modern times, the ghosts of the king, his wife and his mother lament the tragedy—except that it’s not a tragedy. There has been no tragic action. Akhnaten has risen and has fallen but we have not seen within him or the others what the spirit has undergone, the psychological explorations that are the glory of nineteenth-century opera. What we have seen is a stately ritual with sung passages—a style of theater that predates personal tragedy, perhaps, and certainly predates opera, which has its roots in the musical settings of church ritual. But it is not drama. We fall into trance under the spell of this music but we do not know these people as individuals, with lives and feelings revealed to us by their singing. Emotional content is not what Glass’s music is about. And yet the trance induced by repetition in ritual circumstances takes us places, just as Gluck’s stately dramas and Wagner’s reiterations of conflict will do.
The McDermott staging makes ritual drama out of a story (and score) short on action by providing an active action to accompany the stately pace of the music. In particular, the use of Sean Gandini’s company of jugglers is a masterstroke. If you have not seen the production (and it will certainly be widely available for electronic perusal after the highly successful HD telecasts in dozens of countries), you may wonder that critics make so much of the jugglers. They do much more than juggle. They fill the slow-moving and possibly tedious time with lively activity, always based in the rhythms of the score. Their juggling to imply ritual adoration of Aten (as if the hands of an innumerable crowd were waving), building the city of Amarna (the balls in the air growing more numerous and ever higher), reforming the faith of the people (as ninepins replace balls), hunting wild game or wild enemies (the ninepins, astonishingly, turn into bows and arrows before our eyes and the hunters resemble paintings one has seen from the walls of Egyptian tombs), worhiping the sun disk (in this case, a globe on which Bruno Poet’s lighting plays in poetic sequence) and, at last, stoning and reviling the helpless king who has permited foreign enemies to swarm all over Egypt, and at last succumbs to the determined and conservative rebellion of his own chief priests and dignitaries. It is elegantly done and wittily managed. It gives one events to hang on to while the repetitive score is passing by, to hold attention, to hypnotize on the visual level while the music is doing the same on a totally different level. After the tedious NYCO staging, it was a charming relief; after the Champaign-Urbana staging, livestreamed a few years back, which first drew me to return, with pleasure, to a score I had disliked, I’m not sure the juggling is necessary for this opera to make its point, but as reviewers often commented back in 1984, without something in the staging to hold attention and create a structure for the observer’s imagination, the opera is a soundtrack, of limited musical interest.
Tom Pye’s sets and production design masterfully produce three-dimensional visions of the Egyptian symbology fixed in all our minds from exposure to so many museum exhibits, so much exposure to the tomb of Tutankhamun, the movies of Cecil B. DeMille et al.Kevin Pollard’s costumes are fun but puzzling, seemingly aiming for universal symbols of regal dignity (or indignity) and the sinister qualities of the Apparatchik. Why was Amenhotep III wearing four Rolex watches on his wrists? Why was Queen Tye dressed and costumed to resemble brocaded Queen Mary of Teck? Why was Aye got up as Baron Samedi, the Voodoo orisha of Death, umbrella, top hat and all? Not that all this was not more entertaining to watch than Nefertiti’s blue hair-do or Akhnaten’s mercifully brief nudity in the coronation scene. Roth Costanzo has gone quite public with how much he had to train before he risked performing this scene. But his body still appears slight and sexless, entirely hairless, more curiosity than cynosure. This is appropriate, of course, to the depilation of ancient Egyptians in their art, and also to the “naturalism” that was an aspect, whether religiously mandated or fashionable, of Akhnaten’s “reformation.”
Roth Costanzo has rather a nasal than lyrical countertenor, an attractive but not a sensuous sound, more sexless than sexed (either gender; your pardon, any gender). He uses it dramatically and that suits the music he tends to choose. He is an initiator and director of projects as well as a participant, but here he has allowed himself to be subsumed in the entire production. He is the star, but Akhnaten is so grand a picture that there is no star. His centrality does not leap forward to the footlights; he gladly joins the other singers, or rather brings them in to join him.
Disella Lárusdóttir portrays his doting mother (the scenario hints that she is the origin of his monotheism, whether by worship of her son or by secretly having a conversion experience), with flaunting fan and stratospheric sound. J’nai Bridges sings the mezzo role of Nefertiti, which includes a glowing duet with her husband. The three representatives of the Egyptian Old Guard, two of whom will succeed to the throne after Akhnaten’s destruction—Aye, Horemheb and the High Priest of Amon—mutter in harmonized Egyptian monosyllables, moving in a group like those similarly dark-voiced operatic heretics, the evangelists in Meyerbeer’s Le Prophète. They are played to the formal hilt as subservient hypocrites and successful rebels by Richard Bernstein (a house stalwart who was also striking in Satyagraha), Will Liverman and Aaron Blake. The most striking performance, after Akhnaten’s, however, was the speaking role of Amenhotep III, Akhnaten’s (late) father, who remains on stage to introduce the scenes, chart the progress of the heretic’s reign and with unemotional but full-bodied delivery condemn the king’s defeat while seeming to remain neutral. Zachary James made so much emotional impact while speaking these lines in his highly individual bass-baritone that one had to wonder about the contrast with the static, unemotional proclamations of the singing “characters.” Is this really an opera if a speaker has the most interesting things to do?
Whatever the final judgment, the opera sold out the house and overwhelmingly delighted the Met audience. There were grumbles from lovers of more traditional opera and from those who have always disdained the Glass method, but it proved hearteningly easy for those old timers open to the presentation (such as this writer) to permit themselves to be carried away. Certainly the opera had a more immediate musico-dramatic effect than most of the other “modern” (post-Britten) works given at the Met. The box office has spoken. Photo Karen Almond / Met Opera

“Les Vêpres siciliennes” inaugurano la stagione dell’Opera di Roma

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Teatro dell’Opera di Roma – Stagione Lirica 2019/2020
“ LES VÊPRES SICILIENNES”
Opera in cinque atti,
libretto di Eugène Scribe e Charles Duveyrier
Musica di Giuseppe Verdi
La Duchesse Hélène ROBERTA MANTEGNA
Ninetta IRIDE DRAGOTI
Henri  JOHN OSBORN
Guy de Montfort ROBERTO FRONTALI
Jean de Procida MICHELE PERTUSI
Thibault  SAVERIO FIORE
Daniéli FRANCESCO PITTARI
Mainfroid  DANIELE CENTRA
Robert ALESSIO VERNA
Le sire de Béthune DARIO RUSSO
Le Comte de Vaudemont ANDRII GANCHIUK*
*dal progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma
Orchestra, Coro e Corpo di Ballo del Teatro dell’Opera di Roma con la partecipazione degli allievi della Scuola di Danza del Teatro del’Opera di Roma
Direttore Daniele Gatti
Maestro del Coro Roberto Gabbiani
Regia Valentina Carrasco
Scene Richard Petruzzi
Costumi Luis F. Carvalho
Luci Peter van Praet
Coreografia  Valentina Carrasco, Massimiliano Volpini
Nuovo allestimento del Teatro dell’Opera di Roma
Roma, 10 dicembre 2019
Il Teatro dell’Opera di Roma inaugura la nuova stagione con i Vespri Siciliani di Verdi nella originale versione parigina in francese, Les Vêpres Siciliennes, analogamente a quanto fece, primo in Italia, già per l’apertura della stagione 1997/98. Il nuovo allestimento di questo titolo di non frequente ascolto così oneroso, lungo e complesso è affidato questa volta al maestro Daniele Gatti e, per la regia e le scene, rispettivamente a Valentina Carrasco e a Richard Petruzzi. L’opera viene eseguita in versione integrale, cinque atti con il balletto secondo la miglior tradizione del Grand Opéra. Sebbene abituati da sempre ad ascoltarla nella versione metrica italiana di Arnaldo Fusinato approntata per la ripresa alla Scala l’anno successivo alla prima parigina, l’ascolto in francese conferma l’interesse già suscitato nel corso della precedente ripresa alla quale assistemmo e l’idea che probabilmente la lingua per la quale la musica fu originalmente pensata, se proprio non si vuol arrivare a sostenere che si adatti meglio dell’italiano alla partitura, certo consente di mostrarne colori diversi e  di offrire nuovi percorsi di lettura musicale. Probabilmente sulla scorta di queste considerazioni il cast assemblato per la messa in scena  soprattutto per quanto riguarda le voci acute era squisitamente più in linea con i pesi vocali e le necessità di scrittura dei ruoli del Grand Opéra piuttosto che con le caratteristiche delle cosiddette voci verdiane alle quali siamo abituati da una  prassi esecutiva consolidata e gloriosa ma forse nel tempo suggerita e favorita anche dalla scansione della lingua italiana oltre che da un indubbio diverso gusto esecutivo. La regista colloca l’opera in una sorta di cava di pietra senza connotazione temporale in cui non vi sono francesi e siciliani, nobili e popolo  ma solo oppressori in divisa militare molto intenti ad abusare delle donne di oppressi armati di martello senza falce  in una atmosfera cupa, chiusa e buia che si protrae per tutti e cinque gli atti. Nulla compare in questa regia dei colori, delle luci e dei profumi della Sicilia evocati dal libretto e soprattutto dalla musica e la vicenda, immersa in questa opprimente monocromia per tutto il suo sviluppo, avrebbe potuto svolgersi ovunque se non lo si sapesse dal titolo. Brutte e prive di connotazione anche le scene costituite da elementi mobili che di volta in volta definiscono lo spazio dell’azione.  Interessante l’idea di far comparire in scena la figura della madre di Henri e il trasformare il balletto delle Quattro Stagioni in una sorta di pantomima che scava nell’intimo vissuto e psichico dei tre personaggi maschili anche se l’inserimento di risa, singulti e vocalizzazioni snatura secondi noi un’arte che dovrebbe esprimere solo attraverso il gesto, il movimento e la corporeità. Al di là di questo però l’impressione  che se ne cava è che si sia  voluto provare a cercare un qualche cosa che probabilmente non c’è in questo dramma storico che fa da cornice a vicende umane complesse, dolorose ma sostanzialmente lineari e comprensibili, appesantendolo ed incupendolo oltre il necessario. Molto brutto infine e poco adatto alla fisicità dell’interprete ed al rango del personaggio è parso il costume di Hélène, nero anche nel giorno delle nozze. E gratuitamente dura abbiamo trovato l’immagine finale di Henri che con una pietra della cava immola il padre sul patibolo.  Molto meglio invece è andata sul versante della recitazione nella quale si è cercato, sia pure con qualche ingenuità e qualche irrinunciabile stereotipo dei giorni nostri,  di trovare e stavolta con successo  una verità espressiva spontanea e autenticamente convincente.Magnifica e trascinante è apparsa la direzione  di Daniele Gatti, trionfatore della serata, alla guida di un’orchestra in gran forma, sempre attenta a trovare il giusto equilibrio nei volumi sonori, nel dipanare le belle melodie della partitura e nel mostrarne le infinite raffinatezze senza per questo perdere mai il filo della narrazione o far venire meno la giusta tensione drammatica. Molto buone sono risultate le prove del Coro diretto da Roberto Gabbiani e del Corpo di Ballo impegnati in modo significativo nella riuscita dello spettacolo.E veniamo agli interpreti vocali di questa serata inaugurale. Nel ruolo di Hélène ha riportato un ottimo successo il soprano Roberta Mantegna, vanto del progetto Fabbrica del teatro e non più giovane promessa ma artista sicura e completa che ha dato prova di saper affrontare con intelligenza e sensibilità musicale un ruolo così lungo ed oneroso. Henri era il tenore John Osborn che con bel timbro vocale, bel fraseggio e un registro acuto sicuro e squillante ha reso con sincera commozione sia l’impeto amoroso che la sofferta lacerazione interiore del suo personaggio. Roberto Frontali ha impersonato Guy de Montfort con convincente autorità e autentica tenerezza paterna sia pure con qualche episodico problema di intonazione. Caratterizzato da una linea di canto morbida e nobile è stato  il Procida di Michele Pertusi del quale possiede la figura fisica e le intenzioni interpretative ma forse non completamente il peso vocale della parte. Infine bello ed incisivo il colore vocale di Dario Russo nella parte di Béthune e bravissimi Saverio Fiore e Alessio Verna rispettivamente Thibault e Robert per spigliatezza scenica e precisione musicale nei numerosi brevi interventi delle loro parti. Corretta la Ninetta di Iride Dragoti e funzionali e ben inseriti nello spettacolo gli interpreti di Danièli, Manfroid e Vaudemont rispettivamente Francesco Pittari, Daniele Centra e Andrii Ganchiuk.Alla fine, secondo un copione già visto e che dovrebbe iniziare ad indurre una riflessione, applausi lunghi sinceri e convinti per gli interpreti vocali, grande e meritato successo per il maestro Gatti ma evidenti segni di dissenso  da parte del pubblico per la regia e la scenografia. Foto Yasuko Kageyama

Julien Behr: “Confidence”

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C.Gounod:”A vous, ma mère… ô chère et vivante image” (Cinq-Mars);L.Delibes:”J’ai vu la bannière de France” (Jean de Nivelle);A.Messager: “J’aimais la vielle maison grise” (Fortunio);V.Jonceres: “Parlons de moi, le voulez-vous? … Oui j’aime, Hélas!(Le chevalier Jean);A:Holmes: “La nuit et l’amour” (La Nuit et l’Amour); G.Bizet:”Partout des cris de joie… à la voix d’un amant fidèle”(La jolie fille de Perth); B.Godard: “Cachés dans cet asile” (Jocelyn); L.Delibes: “Prendre le dessin d’un bijou…Fantaisie aux divins mensonges” (Lakmé); F.Lehar: “Je t’ai donné mon coeur” (Le pays du Sourire); E.Chabrier. “Habanera”; A.Thomas: “Elle ne croyait pas, dans sa candeur naive” (Mignon); F.Lehar: “Viens dans ce joli pavillon” (La veuve joyeuse; H.Duparc: “Aux Etoiles”; C.Trenet: “Vous, qui passez sans me voir”. Julien Behr (Tenore), Orchestre de l’Opera de Lyon, Pierre Bleuse (direttore). T.Time 65.37 1 CD Alpha Classics

L’opera francese è una miniera da cui solo poche gemme sono state estratte, una necropoli piena di tesori di cui pochi reperti hanno visto la luce del sole. La meritoria attività della Fondazione Palazzetto Bru Zane di Venezia ha permesso a tanti capolavori di uscire dall’oblio, ora un recital tenorile offre l’occasione di un excursus storico sulla vocalità di tenore in Francia dalla metà del XIX secolo agli inizi del XX con un programma di grande intelligenza e raffinatezza che evitando tutti i brani più noti e scontati traccia un percorso storico attraverso brani poco o punto conosciuti ma di grande suggestione lasciandoci desiderare di poter ascoltare integralmente titoli come “Jean de Nivelle” di Delibes o “Jocelyn” di Godard.
Le note introduttive di Alexandre Dratwicki trattano in modo sintetico e puntuale gli snodi della storia della vocalità di tenore nell’Ottocento francese anche se gli ascolti si limitano poi a metà di quella storia, mancando la prima parte – quella dal neoclassicismo napoleonico alla metà del secolo – che ci si augura possa essere affrontata in una prossima incisione. La qualità esecutiva si mostra pienamente all’altezza dell’interesse culturale della proposta.

Diretti con raffinatezza e perfetto senso dello stile da Pierre Bleuse i complessi dell’Opéra de Lyon non solo accompagnano splendidamente il canto ma mostrano tutta la loro qualità negli intermezzi sinfonici inseriti nel programma come “La nuit et l’amour” della compositrice irlandese naturalizzata francese Augusta Holmès – utile per porre l’attenzione sul fenomeno troppo spesso sottovalutato della creatività artistica femminile nella stagione impressionista – o la splendida “Habanera” di Chabier qui proposta nella versione orchestrale tratta dall’originale pianistico.
Il vero protagonista per è il tenore Julien Behr. Cantante ancora giovane e non così conosciuto fuori dai confini francesi il tenore lionese si mostra qui degno erede della miglior tradizione francese di tenori lirici, agili e luminosi, con un gusto e un’impostazione che ricorda il grande Vanzo. Il materiale di partenza di Behr è buona ma non eccezionale, il timbro è piacevole ma non personalissimo, gli acuti sembrano mancare un po’ di squillo specie quando affrontati di forza a piena voce ma le qualità tecniche e stilistiche fanno rapidamente dimenticare la natura in fondo ordinaria. Mozartiano di formazione Behr ha maturato a contatto della musica del salisburghese un’eleganza espressiva, una purezza di linea che però non sacrifica mai l’espressione e che a queste melodie si adatta come un guanto.

Eleganza, nobiltà nel porgere, musicalità impeccabile, dizione semplicemente perfetta – si ascolti quell’autentica lezione di prosodia francese cantata che è in apertura il recitativo “À vous, ma mère” dal “Cinq-Mars” di Gounod.
Quella di Behr è una perfetta incarnazione della voce “de demi-caractere” che derivata dalla fusione del tenore agile e leggero dell’opéra-cominque con quello eroico ma sempre squillante del grand-opéra fonderà grazia e potenza, dolcezza ed eroismo, canto di petto e di testa divenendo la voce simbolo dell’opéra lyrique del secondo ottocento (da Gounod) in poi e della stagione matura dell’opéra-comique (si pensi al Des Grieux di “Manon”). Ovviamente in brani di questa natura Behr brilla in modo particolare. “Fantasie aux divines mensogne” da “Lakmé”- uno dei pochi brani relativamente noti dell’opera – è cantata con un’eleganza e una brillantezza che non teme confronti pur con storici interpreti. Considerazioni analoghe per “Elle ne croyait pas” dalla “Mignon” di Thomas aria un tempo celeberrima nella versione italiana ma che nell’originale francese ritrova una più intima e intensa poesia e a cui il canto di Behr restituisce tutta la purezza di Mignon evocata nel testo. Molti, praticamente tutti i brani proposti meriterebbero di essere segnalati.

Come non porre attenzione al raffinato gioco di tinte e chiaroscuri di “À la voix d’un amant fidèle” da quella “La Jolie Fille de Perth” che è autentico gioiello del catalogo bizetiano; Godard è un altro di quei grandi talenti dimenticati di cui l’opera francese abbonda, la barcarola “Oh ! Ne t’éveille pas encore” da “Jocelyn” è un’autentica meraviglia, una melodia di sublime ispirazione da cui non è difficile farsi incantare specie se eseguita con la musicalità e l’eleganza qui sfoggiate da Behr. Discorso simile per un’altra meravigliosa scoperta, la raffinata semplicità di “J’aimais la vieille maison grise” dal “Fortunio” la cui cronologia (1907) ci porta a un passo dagli stravolgimenti delle nuove generazioni di compositori.
Fra i brani di carattere più eroico ritroviamo l’aria dell’eroe eponimo del “Cinq-Mars”di Gounod, recentemente oggetto di un’incisione integrale sempre per la fondazione Palazzetto Bru e che conferma la fiducia in quest’opera effettivamente degna dei migliori lavori del compositore. Behr è più lirico che eroico ma la perfetta dizione fa risaltare il cavalleresco slancio del recitativo mentre il carattere dell’aria si presta all’abbandono lirico, Behr risulta nel brano più convincente del pur valido Vidal dell’incisione integrale. Decisamente più pesante per il suo tipo di voce “Parlons de moi, le voulez-vous ?… Oui j’aime, hélas !” da “Le Chevalier Jean” di Joncières fra i primi apostoli del wagnerismo in Francia.

Pur sostanzialmente lirica la voce di Behr non manca di corpo e proiezione ed emerge sicura sul ricco tessuto orchestrale, gli acuti però mancano di quella pienezza eroica che si vorrebbe e la ricerca di un maggior volume tradisce qualche sentore di sforzo.
Torna decisamente più nel suo alveo con le due incursioni nel mondo dell’operetta. Si tratta degli unici brani non francesi del programma, due estratti dalle più note operette di Franz Lehár “La Veuve joyeuse” e “Le Pays du sourire” e la scelta dei titoli francesi non è casuale essendo eseguiti non in originale ma in traduzione per evidenziare gli stretti legami che unisco Vienna a Parigi nell’ambito dell’operetta. Chiude il programma una canzone di Charles Trenet “Vous, qui passez sans me voir” del 1937, Behr qui colpisce per la capacità di adattarsi al repertorio leggero, canta con voce non impostata dando al brano quella freschezza che spesso manca alle voci liriche impegnate nella canzone. La cura di Behr è massima anche in questo brano, compresi dettagli minimi come la tendenza ad arrotare le R molto di moda all’epoca sulla scia di Josephine Baker e che Behr riproduce per ricreare il giusto stile del tempo.

Richard Strauss (1864 – 1949) – 15 “Arabella” (1933)

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Richard Strauss (Monaco di Baviera 1864 – Garmisch-Partenkirchen 1949)
Arabella op. 79, opera in tre atti su libretto di Hugo von Hofmannsthal
Prima rappresentazione: Dresda, Staatsoper, 1 luglio 1933.
Richard Strauss in una foto del 1936Nel 1926, quando Helena non ancora ultimata era soggetta a cambiamenti anche nella parte del testo, Strauss e Hofmannsthal pensavano a un nuovo lavoro che riproducesse lo spirito del Rosenkavalier. Già tre anni prima Strauss, in una lettera dell’8 settembre 1923, aveva chiesto al suo poeta di fornirgli un secondo Rosenkavalier senza gli errori e le lungaggini, ma, non essendo i tempi maturi per un simile lavoro, si pensò di dare spazio alla rappresentazione del mito classico nella Helena. Solo agli inizi del 1926 Hofmannsthal, ricordandosi della richiesta di un secondo Rosenkavalier da parte del compositore, incominciò a pensare a un soggetto con le caratteristiche richieste da Strauss, come si evince da questa lettera del 30 gennaio: “Caro amico, pensando affettuosamente a Lei, riconsideravo poco fa, in una tranquilla serata, le aspirazioni e speranze che ci uniscono più delicatamente dei lavori ormai divenuti realtà. Di recente Ella voleva indirizzarmi di nuovo verso il mondo di Peregrino Proteo e temi simili. Ma io credo, e credo con giustificata fermezza: le mie idee vaganti e le mie fantasie produttive dovrei raccoglierle in un’altra regione; sì, in una affine al tema del Rosenkavalier; nella regione borghese, quella della commedia borghese, nei costumi di un decennio non troppo remoto – e per dirla alla leggera, in un modo à la Scribe: amore, amicizia, gelosia, intrigo – un gruppo di persone messe lì ben vive, alle quali accade qualcosa – come nel Rosenkavalier – però in tutt’altro modo”.
Se la vena di Hofmannsthal si rinvigoriva, quella di Strauss, al contrario, sembrava vivereCosima Wagner un momento di crisi d’ispirazione. È, infatti, piuttosto emblematico che il compositore, sempre pronto a tuffarsi con slancio in un nuovo progetto musicale, non abbia fatto alcuna menzione all’idea del suo librettista. Certamente Strauss era concentrato sulla Helena, alla cui composizione stava ancora attendendo, ma è anche vero che non fu subito facile trovare un nuovo soggetto come si può evincere dalla corrispondenza intercorsa tra i due artisti per tutto il 1927, dove si possono leggere diversi abbozzi. Per conoscere, per la prima volta, il titolo della nuova opera, Arabella, bisognerà attendere il 1928; in una lettera del 3 maggio inviata da Strauss ad Hofmannsthal si legge, infatti:
Ho appena ricevuto Arabella, l’ho già letta attentamente più volte e nell’insieme trovo il I atto magnifico. I personaggi sono eccellenti e plastici, particolarmente grazioso e originale è il «proprietario terriero». Soltanto Arabella, per ora, mi sembra di disegno un po’ debole, e i suoi brevi dialoghi con i tre Conti piuttosto insignificanti e comuni (per Hofmannsthal). Solo il finale dell’atto non mi sembra riuscito. A mio parere dovrebbe concludersi assolutamente con una scena solistica, un’aria, un’effusione lirica di Arabella. La conclusione, com’è ora, è certo graziosa, ma non abbastanza efficace per un’opera. Una volta Cosima Wagner mi ha detto: «La cosa più importante sono i finali d’atto»! Però adesso vorrei conoscere soprattutto il successivo svolgimento e gli altri due finali! Non potrebbe dettare in forma narrativa lo schema di tutta la vicenda, fin dove Lei l’abbia già progettato, e spedirmelo qui, perché io possa farmi una prima idea dell’insieme? Le sarei tanto grato! (Epistolario, p. 662).
Clemens KraussDalla lettera si evince che la stesura del primo atto era pronta almeno in questo abbozzo nel mese di maggio del 1928, ma l’estenuante redazione del libretto impegnò Hofmannsthal fino a qualche giorno prima della sua morte avvenuta il 15 luglio del 1929. Durante questo lungo periodo la corrispondenza tra i due artisti, che appare fittissima a dimostrazione di un lavoro di cesello per nulla inconsueto al modus operandi di Strauss e Hofmannsthal, riserva anche delle sorprese. Il 7 novembre 1928 Strauss, che sembrava non conoscere fatica quando lavorava a una nuova opera, scrisse al suo librettista: “Caro amico! Dopo un lungo intervallo ho di nuovo affrontato radicalmente il primo atto di Arabella e mi sono anche messo alla prova tentando di comporre l’avvio – ma la cosa non vuole venirmi, e in tutta sincerità: i personaggi non m’interessano affatto: né il croato, questo pendant ricco e nobile del povero Ochs degradato, né tanto meno la protagonista Arabella, che in tre atti non conosce il minimo conflitto psicologico. (Ivi, p. 706)
Una forma di stanchezza attanagliava Strauss o forse la sua ispirazione stava vivendo un momento diViorica Ursuleac (la prima Arabella) crisi? Questo non è dato saperlo, ma dall’epistolario intercorso tra i due artisti si evince che non fu semplice raggiungere il risultato finale. Le correzioni e gli aggiustamenti al solo primo atto si protrassero fino al 14 luglio 1929, data a cui risale un biglietto indirizzato da Strauss ad Hofmannsthal nel quale si legge:“Primo atto eccellente. Cordiali ringraziamenti e congratulazioni. Fedelmente devoto Richard Strauss”. Il biglietto, giunto a Rodaun, residenza di Hofmannsthal il giorno dopo, non fu mai letto da quest’ultimo che non poté raccogliere le felicitazioni del compositore. Il poeta, infatti, era morto qualche ora prima stroncato da un attacco di cuore mentre si accingeva a partecipare al funerale del figlio Franz, morto suicida il 13 luglio. Privato del suo stretto collaboratore, Strauss operò dei tagli al libretto, ma la composizione dell’opera andò molto a rilento tanto che nel mese di luglio del 1932 il terzo atto non era stato ancora orchestrato, come lo stesso compositore ebbe modo di riferire a Fritz Busch. L’orchestrazione del terzo atto, però, non impegnò Strauss per molto tempo e l’opera, completata nel mese di ottobre di quello stesso anno, poté vedere le scene il 1° luglio del 1933 a Dresda sotto la direzione di Clemens Krauss e con Viorica Ursuleac (Arabella), Margit Bokor (Zdenka), Friedrich Plaschke (il conte Waldner), Camilla Kallab (Adelaide), Alfred Jerger (Mandryka), Martin Kremer (Matteo).

L’opera (Il libretto)  Atto primo
Arabella - atto 1Dopo poche battute caratterizzate da un tema cromatico discendente affidato ai legni, il sipario si apre sul salotto di un albergo situato nel centro di Vienna; la contessa Adelaide, moglie del conte Waldner, confida nel matrimonio della figlia Arabella per risollevare le sorti economiche della famiglia, le cui sostanze erano state dilapidate dal marito al gioco. Per questa ragione interroga una cartomante che risponde: Die Karten fallen besser als das letzte Mal (Le carte dicono meglio che la volta scorsa). Nel dialogo, a cui partecipa anche Zdenka, sorella minore vestita da maschio perché, come affermato dalla madre, è monella e, inoltre, non può essere educata come il rango meriterebbe a Vienna a causa delle disastrate finanze della famiglia, si apprende che lo sposo di Arabella sarà un gran signore, forse il Conte Elemer, ma che a quest’unione si oppone la presenza di una donna bionda. Nel frattempo, Zdenka segretamente innamorata di Matteo, un ufficiale del corpo dei cacciatori, è impegnata a tenere a bada i creditori che a più riprese cercano di rivalersi nei confronti della sua famiglia. Musicalmente il dialogo è tutto giocato su alcuni brevi elementi tematici che contrastano tra di loro essendo alcuni di caratterelirico ed altri brillanti e saltellanti. Lo stesso trattamento è riservato da Strauss alle voci che ora di producono in aperture liriche, ora simulano il parlato con dei ribattuti.Un brevissimo interludio a ritmo di valzer, che conferma il carattere leggero e viennese dell’opera, introduce il breve dialogo tra Matteo e Zdenka. L’ufficiale, innamorato di Arabella, chiede a Zdenka, ritenuta un ragazzo, cosa abbia fatto di recente la fanciulla da lui amata tormentandosi di gelosia perché è uscita con altri uomini. Il suo canto si caratterizza per gli slanci da tenore amoroso, mentre un languido tema affidato all’oboe introduce la protagonista, Arabella, il cui carattere leggero risalta immediatamente nel modo civettuolo con il quale la donna tratta i suoi pretendenti in attesa del Principe azzurro dei suoi sogni. Il duetto si caratterizza per una scrittura languida e lirica che trova il suo punto culminante in aber der Richtige – wenn‘s einen gibt für mich / auf dieser Welt (Ma l’uomo che io sogno, se ce n’è uno per me /su questa terra), una pagina d’intenso e tenero lirismo per la quale Strauss utilizzò a una melodia tratta da una raccolta di canti di Slovonia. Un suono di sonagli, che annuncia l’arrivo del conte Elemer, interrompe questa pausa lirica e così il flusso melodico riprende per dar vita a un serrato dialogo tra Arabella e Zdenka, nel quale si percepisce la riluttanza della donna nei confronti della possibilità di sposare il conte. Questi, annunciato da ironiche trombe che introducono un tema di polacca, entra in scena per invitare la ragazza al ballo dei Fiaccherai. Nel dialogo, condotto con la scrittura musicale altre volte utilizzata da Strauss e caratterizzata da parti liriche costituite da un flusso di Leitmotiv e da altre dialogate, emerge il seducente e accattivante tema del corno che accompagna le parole di Elemer Zum Preis hat Sie sich selber eingesetzt / mit Ihren Blicken hat Sie uns gefordert, Ihr zu stehn (Voi stessa vi siete posta in palio; coi vostri sguardi. Voi ci provocaste a questo gioco).

Le due sorelle restano sole e, mentre Arabella cerca di architettare un piano con la complicità di Zdenka, giunge, accompagnata dal tema iniziale, la loro madre, Adelaide, insieme al marito che indica alla moglie un tale Mandryka, un uomo maturo, ma piuttosto ricco al quale vorrebbe dare in sposa Arabella. Il conte Waldner è caratterizzato in modo ironico e giocoso grazie a temi saltellanti in orchestra e all’uso quasi clownesco del fagotto, mentre un momento di recitato caratterizza la parte del cameriere il quale, senza battere ciglio, ricorda alla coppia che non possono ordinare più nulla all’albergo se non prima aver pagato i loro debiti.
Ironico è anche l’ingresso di Mandryka caratterizzato da una musica falsamente solenne che introduce il successivo dialogo nel quale si scopre che il conte Waldner aveva effettivamente scritto allo zio di Mandryka, morto, però, qualche tempo prima. Entrato in possesso della lettera, alla quale il conte aveva accluso un ritratto di Arabella, l’uomo, rimasto affascinato dalla fanciulla, si era presentato per accettare la proposta di matrimonio. Nel dialogo, particolarmente articolato e complesso, tra i due Mandryka che, all’inizio, appare goffo e rozzo come i temi che lo caratterizzano tratti dal repertorio popolare della Slavonia, sua terra di origine, si produce in aperture liriche quando si riferisce ad Arabella per la quale già prova un forte sentimento d’amore. La perizia strumentale di Strauss, inoltre, emerge nel bel duetto a cui danno vita il fagotto e il corno mentre accompagnano le parole di Mandryka Ich werd mich hier im Hause einlogieren (Io prenderò alloggio in questo albergo). Alla fine l’uomo si congeda, non prima di aver assicurato il suo interlocutore sulle sue sostanze e avergli dato come anticipo un’ingente somma di denaro. Waldner, da parte sua, gli promette che gli avrebbe presentato la figli la stessa sera al ballo dei Fiaccherai.
Una pura scena comica è prodotta dall’irruzione del Cameriere che, inizialmente scortese, cambia tono allorché vede nelle mani del conte un biglietto da mille. Nel brillante finale d’atto c’è anche spazio per un breve duetto nel quale Zdenka rassicura Matteo che al ballo avrebbe ricevuto una lettera di Arabella. Costei, rientrata in scena, si mostra particolarmente turbata dal contrastante sentimento di attrazione e repulsione che prova nei confronti di Elemer. Il suo animo sembra scandagliato da un languido a solo della viola, strumento particolarmente adatto per il suo timbro a rappresentare l’amore, protagonista dell’episodio solistico affidato ad Arabella (Mein Elemer! – Das hat so einen sonderbaren Klang / Il mio Elemer! Queste parole suonano tanto strane!) di struggente lirismo in cui ritornano alcuni dei Leitmotiv principali utilizzati da Strauss in quest’atto caratterizzato da un giocoso finale.
Atto secondo
In un atrio a colonne che dà accesso a una sala da ballo Mandryka, insieme al contearabella atto 2 Waldner, attende di conoscere Arabella che non tarda ad arrivare. La fanciulla, alla vista dell’uomo al quale è destinata in sposa dai genitori, ha un mancamento, mentre l’uomo resta abbagliato dalla bellezza della ragazza. Intanto Arabella viene invitata a ballare dagli altri pretendenti. La scena appare mirabile per il modo in cui Strauss caratterizza i personaggi: Arabella è nobilitata dagli archi; Waldner, sempre goffo e volgare, è rappresentato con i temi insignificanti già uditi nel primo atto e Mandryka con un lirismo (Ich habe eine Frau gehabt, sehr schön, sehr engelsgut / Iddio m’aveva concesso in moglie un fior del Cielo!) (Es. 3) a volte franto che raramente si dispiega in ampie arcate melodiche denunciando l’origine un po’ paesana del personaggio. In un lungo duetto, nel quale l’uomo confessa con una certa malinconia di esser rimasto vedovo dopo appena due anni di matrimonio, Mandryka dichiara il suo amore alla donna in una scrittura che evidenzia la differenza tra i due personaggi; se la linea vocale di Arabella trova ampie arcate melodiche quasi liederistiche, quella di Mandryka resta spesso confinata in prosastici ribattuti nonostante gli archi, accompagnandolo, cerchino di nobilitarlo. Solo nella parte finale (meine Allerschönste! / O mia sublime sposa) l’uomo finalmente cede al tenero lirismo di Arabella alla cui linea melodica aderisce in modo sognante e incantato.

Arabella, congedato Mandryka, si lascia coinvolgere nel ballo all’interno del quale interviene, a ritmo di Polka prima e di valzer dopo, la Fiaker-Milli, che, come recita la didascalia, è una bella figliola che porta un abito da ballo molto sgargiante e reca nelle mani un gran mazzo di fiori. In questa scena l’ironia nei confronti dell’operetta si esercita anche attraverso un’articolata cadenza affidata sempre alla Fiaker-Milli che introduce il celebre valzer sulle cui movenze si intrecciano i sentimenti degli altri personaggi tra cui Matteo il quale teme, nonostante le rassicurazioni di Zdenka, che Arabella, nel pieno del suo trionfo come regina del ballo, non pensi più a lui e al suo amore. Alla fine del ballo Arabella congeda i suoi pretendenti in una scrittura malinconica, venata di echi di temi già esposti, che denuncia il passaggio della donna dalla serena e spensierata giovinezza, periodo in cui poteva giocare con l’amore, alla maturità caratterizzata da un amore vero che adesso sente di provare per Mandryka. Dopo un vorticoso valzer che conclude la scena, Matteo, roso dalla gelosia, riceve da Zdenka una lettera, che l’uomo crede scritta da Arabella, ma che in realtà è stata scritta dalla stessa Zdenka la quale aggiunge che la sorella lo attende in una camera dell’albergo della quale gli consegna la chiave. Al colloquio assiste per caso Mandryka che prorompe in un furioso a solo, per la verità piuttosto convenzionale, in cui manifesta la sua gelosia. L’uomo, che appare confuso anche quando la Fiaker-Milli, a braccetto con Elemer, gli chiede di rendergli la regina della danza, pensa sempre alla chiave della stanza nella quale ritiene che Arabella attenda il suo amante Matteo. La festa, nel frattempo, continua e i temi delle danze si intrecciano e accompagnano i gelosi furori di Mandryka, un po’ ebbro, in una scrittura chiaramente ironica e quasi operettistica grazie anche ad interventi recitati di altri personaggi e agli immancabili vocalizzi della Fiaker-Milli. In una scrittura, che si fa più drammatica, intervengono anche Adelaide e il marito, che, preoccupati per la figlia che non vedono più alla festa, decidono di seguire Mandryka, mentre l’atto si conclude in un clima festoso.
Atto terzo
Un breve fragoroso preludio, in cui emerge lo straordinario sinfonismo di Strauss apre l’ultimo atto al quale è unito senza soluzione di continuità. Questa pagina, che si segnala per una scrittura contrappuntistica estremamente raffinata e per un’orchestrazione lussureggiante di grande effetto, si conclude, infatti, con un rapido disegno dei violini che conducono alla ripresa del tema del valzer del primo atto. Nel vestibolo dell’albergo Arabella, di ritorno dal ballo, intona una tenera arietta (Über seine Felder wird der Wagen fahren / Per i suoi vasti campi andrà volando il cocchio) in 2/4 (Es. 4), al termine della quale entra in scena Matteo che si meraviglia nel vedere Arabella in quel posto credendo di averla appena lasciata nella stanza. L’incontro con Matteo produce una vera e propria piccola commedia degli equivoci che si svolge su alcuni dei Leitmotiv introdotti da Strauss in precedenza e in una scrittura amabilmente discorsiva che a volte trova interessanti aperture liriche soprattutto quando Matteo continua a dichiarare il suo amore ricordando di aver giurato di lasciarla libera solo dal giorno successivo. Matteo, che crede di aver incontrato Arabella nella stanza di cui aveva ricevuto la chiave da Zdenka, pensa che la donna stia recitando allorché questa gli dice che sta rientrando dal ballo. Arabella, da parte sua, appare infastidita dalla presenza di Matteo a quell’ora della notte e non comprende le parole dell’uomo. I due vengono sorpresi dai coniugi Waldner e da Mandryka che crede di essere stato tradito da Arabella nonostante costei protesti la sua innocenza rispondendo sia al padre che al suo futuro sposo. La scena è caratterizzata da un flusso melodico continuo che coinvolge i Leitmotiv i quali trattati in un sapiente gioco contrappuntistico. Ancora una volta i personaggi appaiono caratterizzati con una penna sapiente e, se Arabella si esprime con il solito incantato lirismo che la contraddistingue, Mandryka manifesta tutta la sua ira in una scrittura a volte franta dal punto di vista melodico. La situazione incomincia a degenerare e sta per sfociare in un duello nonostante i tentativi di Arabella di frapporsi tra i contendenti affermando che solo Mandryka può vantare qualche diritto su di lei essendo il suo fidanzato a differenza di Matteo che non ne avrebbe alcuno. Questi, meravigliato, Arabella afferma di non aver alcun diritto, ma si ferma quando sta per dire la parola tranne. Quest’esitazione viene compresa da Mandryka il quale completa la frase affermando: “Außer den Rechten,” hat er sagen wollen – “die diese Nacht verliehen hat!” (“Tranne i diritti” – egli voleva dire – “che questa notte mi ha elargiti!”). Il comportamento insolente dell’uomo suscita la reazione di Waldner che vorrebbe soddisfazione da Mandryka, mentre Matteo, accusando se stesso di essere il colpevole di quanto avvenuto, si dichiara desideroso di pagare per il suo comportamento. Questa scena, che si segnala per una raffinata scrittura contrappuntistica, è rivelatrice della grande perizia tecnica di Strauss più che di una vera ispirazione. La scena si conclude con un breve dialogo recitato nel quale Arabella continua a protestare la sua innocenza, mentre Mandryka ordina al suo servo di andare ad acquistare due sciabole per il duello.

Giunge Zdenka, vestita solo con una mantiglia e i capelli sciolti, per dare un ultimo saluto ai suoi cari prima di gettarsi nel Danubio perché non può sopravvivere alla vergogna di essere stata con un uomo. La ragazza rivela tutto ad Arabella svelando così l’equivoco di cui tutti sono stati vittime e dando la possibilità a Strauss di costruire nella parte orchestrale una pagina di elevata fattura contrappuntistica in cui tutti i personaggi esprimono i propri sentimenti. Tra questi Matteo appare colpito dall’amore di Zdenka nei suoi confronti, mentre Mandryka non sa perdonarsi per aver dubitato della buona fede di Arabella che, però, lo perdona. L’uomo, in una scrittura piuttosto convenzionale su un semplice ed ottocentesco accompagnamento accordale affidato agli archi in pizzicato chiede di nuovo la mano di Arabella a Waldner, mentre Matteo può sposare Zdenka con la benedizione del conte. Rimasti soli Arabella e Mandryka si scambiano le promesse d’amore in un duetto nel quale sembra ritornare lo spirito del Rosenkavalier con toni soffusi ed espansioni liriche, mentre la stretta finale è una gioiosa galoppata che si conclude con l’accordo perfetto di fa maggiore.

Ann Hallenberg & Stile Galante, Stefano Aresi. “The Farinelli Manuscript”

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The Farinelli Manuscript. “Son quale nave che agitata” (aria, di Anonimo, probabilmente Carlo Maria Broschi-Farinelli); “Vuoi per sempre abbandonarmi?” (aria, di Gaetano Latilla); “Ogni dì più modesto”, “Non sperar, non lusingarti” (recitativo e aria, di Niccolò Conforto); “Quell’usignolo” (aria, di Geminiamo Giacomelli); “Io sperai del porto in seno” (aria, di Giovanni Battista Mele); “Invan ti chiamo, invan ti cerco, amato”, “Al dolor che vo’ sfogando” (recitativo e aria, di Anonimo, probabilmente Geminiamo Giacomelli). Ann Hallenberg (mezzosoprano), Stile Galante, Stefano Aresi (direttore). Registrazione: Diemen (Schuilkerk De Hoop), the Netherlands, 9-12 aprile 2019. T.Time:72’04 1 CD Glossa GCD 923521
Nei saloni affrescati di Palazzo Nunziante di Napoli, si è tenuta la presentazione del disco The Farinelli Manuscript, interpretato dall’ensemble Stile Galante, diretto dal musicologo e musicista Stefano Aresi. Un progetto culturale svoltosi anche grazie al talento del mezzosoprano Ann Hallenberg, che ha cantato le sei arie (due delle quali precedute da brevi recitativi) che compongono il prezioso manoscritto inviato, verso la fine di marzo del 1753, dal cantore evirato Carlo Maria Broschi, detto Farinelli, all’Imperatrice d’Austria Maria Teresa, “coll’idea di rinnovare, forse, nella mente della Cesarea Maestà l’idea dell’estensione e dell’altre qualità della voce”. È il tentativo, la sfida del divo d’imprimere sulla carta il segno della sua vocalità, delle sue capacità vocali; il tentativo di bloccare e tramandare ciò che oggi potremmo considerare come testimonianza approssimativa di quella voce. Tale operazione c’appare come la trascrizione, la descrizione dell’indefinibile, dell’inavvicinabile chimera che è la vocalità dei castrati; l’ardua prescrizione di numeri musicali che non recano o dichiarano indicazioni di paternità, ricostruita da Aresi attraverso un lungo lavoro di ricerca sulle fonti e sulla prassi esecutiva barocca. Generalmente, non tutte le fonti musicali possono denunciare esplicitamente la paternità dei brani, è vero; però, in questo caso, l’assenza di tali indicazioni è particolarmente indicativa: Farinelli, residente a Madrid dal 1737, modifica le arie del catalogo aggiungendo ornamenti, abbellimenti, fioriture; elementi che non venivano mai scritti, ma che rientravano nella tipica formazione dei cantanti italiani del Settecento, e che eseguivano di norma. Due arie, “Son qual nave che agitata” (probabilmente, la rielaborazione effettuata dal castrato dell’aria dal Mitridate di Giovanni Antonio Giay) e “Quell’usignolo” (dalla Merope di Geminiamo Giacomelli) recano i da capo originali del Broschi. Stefano Aresi decide di riscrivere i da capo e le cadenze mancanti degli altri numeri, facendo riferimento a comuni meccanismi presenti in fonti coeve al catalogo del divo.
Il disco s’allontana fortemente dalle abituali esecuzioni di musica del XVIII secolo, da quelle operazioni leccate e patinate, e quasi c’impone l’agognato contatto con una vocalità solo apparentemente fuori dall’ordinario. Il lavoro di Aresi si concretizza nel tentativo d’avvicinare l’ascoltatore a quella verità, a quella autenticità che il cantore ha tentato di costringere nella carta, e che è enormemente distante dalla nostra percezione di Settecento, magari neoclassicheggiante, idilliaca, edulcorata. Ne consegue la restituzione d’un preciso linguaggio alla sua cornice temporale, fatto da una vocalità esagerata, spropositata, dall’enorme estensione, pleonastica, paga d’un edonistico virtuosismo fine a se stesso. Ma ciò che c’appare oggi di “cattivo gusto” non è altro che il vero gusto dell’epoca, e bisogna accettarlo, che piaccia o meno. Le difficoltà affrontate da Ann Hallenberg sono state notevoli: salti abnormi, cadenze eseguite tutte d’un fiato, l’impeccabile produzione di quantità di note a velocità impressionanti; voce imponente nel dominare le impervie variazioni dei da capo delle arie, e ferratissima nell’affrontare le asperità del canto e dei registri vocali, soprattutto quello grave, teatralmente e superbamente caratterizzati. Difficoltà tecniche affrontate mirabilmente, con una costante ed elettrizzante carica edonistica, non priva dell’essenziale senso di fraseggio nei recitativi; voce in piena relazione coll’accompagnamento, cesellato e scandagliato con maniacale precisione, quasi chirurgica, e caratterizzato da una significativa preponderanza dei fiati, soprattutto dei corni.
Attraverso questo affascinante lavoro, possiamo finalmente gettare lo “sguardo oltre la siepe”, forse per capire cosa sia stato veramente il Settecento, e ciò può avvenire solo se s’inserisce il manoscritto nel suo specifico contesto esecutivo: la corte spagnola, tendenzialmente dominata da una prassi esecutiva di tipo francese, e dal gusto squisitamente italiano imposto da Farinelli. Si tratta, quindi, della riedificazione di quella variegata realtà musicale che, attraverso lo studio di documenti, ha determinato anche la disposizione dei musicisti nello spazio, durante la concertazione e l’incisione discografica.
Un prodotto culturale che dev’essere capito, poiché presenta cose che non sentiamo altrove; cose che ora vengono avvertite come “eccezionali”, ma che sono elementi costitutivi del gusto dell’epoca. Difatti, la percezione della loro “straordinarietà” dipende dal fatto che nel frattempo il Settecento sia diventato altro. Foto Pierpaolo Russo & Valentina Anzani

Teatro alla Scala di Milano: “Tosca”

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Milano, Teatro alla Scala- Stagione d’Opera e Balletto 2019-2020
“TOSCA”
Melodramma in tre atti – Libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa
Musica di Giacomo Puccini
(Nuova edizione critica a cura di Roger Parker, versione Roma 1900)
Floria Tosca ANNA NETREBKO
Mario Cavaradossi FRANCESCO MELI
Il Barone Scarpia LUCA SALSI
Il sagrestano ALFONSO ANTONIOZZI
Cesare Angelotti CARLO CIGNI
Spoletta CARLO BOSI
Sciarrone GIULIO MASTROTARO
Un carceriere ERNESTO PANARIELLO
Un pastore GIANLUIGI SARTORI
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Direttore Riccardo Chailly
Maestro del coro Bruno Casoni
Regia Davide Livermore
Scene Giò Forma
Costumi Gianluca Falaschi
Luci Antonio Castro
Video D-Wok
Nuova produzione Teatro Alla Scala
Milano, 13 dicembre 2019
C’è sempre una prima volta. Sorprende che l’opera pucciniana tra le più note e amate dal pubblico non sia mai stata scelta fino ad oggi come titolo inaugurale della stagione scaligera. Ma c’è di più: a questa “Tosca”, in particolare, nessuno ha mai assistito se non i presenti al debutto assoluto del 14 gennaio 1900 al Teatro Costanzi di Roma. In mezzo a quella platea eletta sedeva naturalmente anche il compositore, il quale dopo la prima esecuzione in palcoscenico apportò tagli e aggiustamenti sostanziali per restituirci la partitura come tutti la conosciamo oggi.
Continua dunque il percorso di indagine filologica fortemente voluta e portata egregiamente avanti da Riccardo Chailly, con un nuovo ritorno alle origini che ci apre all’ascolto di otto passaggi inediti incastonati in diversi punti determinanti dell’opera. Per citarne alcuni: ascoltiamo cinque misure aggiuntive nel duetto Tosca-Cavaradossi al primo atto, un finale primo differente con variazioni corali nel Te Deum, due misure aggiuntive a chiusura del “Vissi d’Arte” e, tra le variazioni più sostanziali, ampie dilatazioni sinfoniche sulla scena dell’assassinio di Scarpia e sul finale ultimo. Chailly, in una perfetta simbiosi con l’Orchestra del Teatro Alla Scala, ci accompagna nella scoperta di questa Tosca inedita in un racconto musicale fluido, con una lettura d’ampio respiro lirico e al contempo efficace nei suoi aspetti crudi, sanguigni, volti a sviscerare i tratti più tragici e cupi della vicenda, sempre entro i limiti di un rigore formale ineccepibile. L’ennesima conferma di avere sul podio una bacchetta ad oggi difficilmente superabile in questo repertorio, capace di scavare nell’anima di Puccini con estrema intelligenza interpretativa, approfondimento musicale e cura maniacale nelle scelte ritmiche e dinamiche.
Purtroppo non sempre un nome è una garanzia. Diva internazionale e acclamata Tosca in tutto il mondo, Anna Netrebko approda a Milano nel ruolo del titolo e – pur intascandosi il favore del pubblico alla Prima e in replica, per dovere di cronaca – la sua interpretazione lascia più di qualche perplessità. Per quanto la voce sia pastosa e di volume ragguardevole, resta l’impressione di uno sforzo costante nell’emissione e il conseguente sacrificio di qualsiasi tipo di colore e dinamica, qualsiasi suono raccolto o ammorbidito all’occorrenza. Un’intenzione interpretativa che non trova una scappatoia nemmeno a livello scenico, per quanto il soprano tenga il palco con sicurezza: di un personaggio complesso che vive e si nutre di sfumature infinite – amante appassionata, gelosa, dolce, trasparente, impulsiva, uterina, diva fiera, affascinante, donna orgogliosa, risoluta, devota – non rimane che un pallido ritratto senza dimensione che si regge su un’alternanza binaria di sfoghi d’ira e lamenti cantati tutti a grande (grandissima) voce.Eccezione assoluta a questa tendenza è il suo “Vissi d’Arte” che sembra galleggiare in una bolla a sé, barlume di un passato di gloria belcantistica che nessuno ha dimenticato: qui il soprano russo canta finalmente con sincero trasporto, emissione omogenea, bel legato impreziosito da accenti e sfumature, brillante negli acuti. C’è ancora ampiamente tutto il buon materiale di un’artista di razza, forse da incanalare in altri ruoli più congeniali.
Quanto ai limiti espressivi di cui sopra, affiancare un Cavaradossi misurato e composto come quello di Francesco Meli di certo non aiuta. Con una vocalità perfettamente congeniale all’opera, il tenore genovese interpreta un Mario convincente a tutto tondo, nell’amore (struggente in “Qual occhio al mondo”), nello slancio eroico (incendiato in “L’alba vindice appar”), nella morte (rassegnato in “E lucean le stelle”). Che non tutti gli acuti siano perfettamente a fuoco poco importa, la voce corre in teatro con estrema facilità ed è modulata con controllo minuzioso del fraseggio, ricercatissimo, costellato di colori e mezzevoci.
Ben più ruvido, ma non per questo grossolano, lo Scarpia di Luca Salsi. Figura cardine dell’opera, scavato musicalmente da Puccini fino al midollo e non per niente dominante nella partitura dal principio con il tritono demoniaco insito nel suo tema. Scarpia è subdolo, ambiguo, sottile, volgare, crudele, ma sempre in apparenza nobile ed elegante: il baritono parmigiano riesce molto bene in questa interpretazione stratificata, nel carattere e nella voce. Efficace la varietà di accenti lungo tutto il secondo atto, dall’aria (“Ha più forte sapore”), ai cantabili (“…Già mi struggea l’amor della diva!”) ai passaggi prossimi al declamato (“Come tu m’odii…Tosca, finalmente mia!”).
A completare il cast artisti di altissimo livello, su tutti Alfonso Antoniozzi che con straordinaria intelligenza teatrale e vocalità rutilante riporta i riflettori sul ruolo del sagrestano che spesso rischia di passare inosservato. Malefico e ben cantato lo Spoletta di Carlo Bosi, chiamato in questa edizione a recitare una versione estesa e alternativa della preghiera durante la scena della tortura.Funzionale l’Angelotti di Carlo Cigni, come anche il resto del cast: Giulio Mastrotaro (Sciarrone), Ernesto Panariello (un carceriere), Gianluca Sartori (un pastorello). Impeccabile il Coro diretto da Bruno Casoni con un plauso particolare al finale primo, un Te Deum (nella sua prima inedita stesura) da cardiopalma.
Questa Tosca è nel suo complesso un trionfo musicale che trova nel brillante spettacolo di Davide Livermore un perfetto contraltare. Una regia d’impronta fortemente cinematografica non come vezzo gratuito ma come omaggio a una partitura già vicina a un vero e proprio storyboard fin dalla sua pionieristica concezione: non solo nel libretto le azioni/intenzioni sono descritte nel minimo dettaglio, ma la musica stessa nella sua potenza e varietà suggerisce una narrazione precisa dei movimenti, delle intenzioni, degli stati d’animo restituendone una sorta di concretezza visiva. Livermore non fa che assecondarla con intelligenza, rispetto e insieme soluzioni innovative che strizzano ampiamente l’occhio alla Prima televisiva, ma perfettamente funzionanti anche in sala. Un maestoso ingranaggio teatrale in movimento perpetuo delinea gli spazi e li percorre con occhio cinematografico, fornendo allo spettatore diversi punti di vista sui protagonisti come osservandoli tramite una macchina da presa, da diversi campi e angolazioni. La trovata più originale e vincente in questo senso chiude il terzo e ultimo atto, in cui seguiamo Tosca istante per istante nel suo lancio nel vuoto, in un dimenarsi in slow motion con la disperazione in volto e l’abito gonfiato dal vento, svanendo nel nero all’impatto finale. Rimane un mistero, per chi scrive, come questa scena sia stata in più occasioni letta come ascesa al cielo in una sorta di Assunzione (forse un effetto ottico dei raggi di luce, la posizione eretta, le braccia alzate), ma resta interessante anche questa doppia interpretazione che potrebbe anche andare a completare la prima.
Immancabili per una suggestione cinematografica a tutto tondo anche i contributi video di D-Wok, funzionali ma non invasivi, impiegati principalmente nelle grandi tele a olio come l’imponente Maddalena di scuola carracciana e i dipinti nello studio del Barone che velatamente partecipano alla tragedia in corso voltandosi verso Tosca. Suggestivo anche il cielo plumbeo del finale sul quale si staglia l’imponente ala di Castel Sant’Angelo. Le scene firmate da Giò Forma restano coerenti con il tempo e i luoghi in cui si svolge la vicenda: Roma, 1800. Mastodontiche, cupe, grigio pece nelle cromie dominanti, illuminate ora da esplosioni d’oro negli altari di Sant’Andrea della Valle, ora dal luccichio dei marmi a Palazzo Farnese. Grande valore aggiunto è dato anche dalle luci di Antonio Castro, non solo eccezionali a livello visivo e compositivo – citiamo ad esempio la suggestiva luce lunare che filtra dall’ampio finestrone nel secondo atto – ma pregnanti nel sottolineare una chiave di lettura fortemente Scarpia-centrica, dall’accecante ingresso in scena (“Un tal baccano in chiesa!”) come fosse stato rigettato dall’inferno, agli occhi di bue che spesso lo isolano dal contesto (pensiamo al finale primo quando l’Altissimo sale tra gli incensi ed egli rimane ancorato a terra tra le tenebre o allo spot sul suo corpo esanime sovrastato da una Tosca in trionfo). Il focus su Scarpia è sempre al massimo, malvagio deus ex machina di tutta l’opera tanto nella partitura quanto sulla scena. Anche i costumi di Gianluca Falaschi lavorano su un piano evocativo-simbolico, elevandosi a manifesto della personalità di chi li indossa: Tosca porta sempre una nota di rosso che è passione e sangue, abbinata a un celeste di salvifica purezza; Scarpia, come i suoi sbirri veste un soprabito di pelle nera sporcata di porpora, simbolo di un’anima corrotta. Il teatro è gremito e scrosciante è l’applauso del pubblico al termine della recita, con ovazioni per Chailly e i tre protagonisti, ulteriore tributo dopo gli applausi a scena aperta a seguito delle arie principali. Foto Brescia & Amisano

Catania, Teatro Massimo Bellini: “La Cenerentola”

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Catania, Teatro Massimo Bellini, Lirica e Balletto, Stagione 2019
“LA CENERENTOLA”
Dramma giocoso in due atti,
Libretto di Jacopo Ferretti
Musica di Gioachino Rossini
Angelina LAURA POLVERELLI

Dandini VINCENZO TAORMINA
Don Magnifico LUCA DALL’AMICO
Don Ramiro DAVID ALEGRET
Alidoro MARCO BUSSI
Clorinda MANUELA CUCUCCIO
Tisbe SONIA FORTUNATO
Orchestra e Coro del Teatro Massimo Bellini
Direttore José Miguel Pérez-Sierra
Maestro del coro Luigi Petrozziello
Regia Paolo Gavazzeni, Piero Maranghi
Costumi Giovanna Giorgianni
Luci Antonio Alario
Nuovo allestimento
Catania, 15 dicembre 2019
Cenerentola, fiaba universale senza tempo e senza una patria, in questa ripresa, al Teatro Massimo Bellini di Catania, di una delle sue più famose trasposizioni teatrali,  ha trovato la sua perfetta ambientazione nel capoluogo etneo, i cui luoghi più significativi, rappresentati dal Duomo, da Palazzo Biscari, da Porta Uzeda, dai Faraglioni, dalla fontana dell’Amenano, dalla Pescheria e dal Teatro greco-romano, si sono materializzati attraverso delle videoproiezioni di Patrick Gallenti. Queste videoproiezioni, che si aprono con i titoli di testa e si chiudono con quelli di coda, contribuiscono a creare un vero e proprio film muto, all’interno del quale recitano, in abiti da scena, gli interpreti dell’opera. Ciò determina un’accentuazione del comico e, quasi, grottesco, di alcuni personaggi e soprattutto di Clorinda, Tisbe e Don Magnifico che si rivelano essere, come del resto tutti i componenti del cast, degli ottimi attori recitando anche con il corpo e con una mimica facciale messa in rilievo dai primi piani. Il film si chiude con l’immagine del Teatro Massimo Bellini proiettata dietro Angelina che, nello splendido finale dell’opera, è quasi incoronata regina di quel mondo pieno di illusioni che è appunto il teatro.  Tutto questo, insieme a due divani e qualche sedia in velluto rosso, costituisce la scenografia all’interno della quale gli interpreti, ben diretti dai registi Paolo Gavazzeni e Piero Maranghi, si muovono in modo da realizzare un contrasto tra i personaggi comici come i suddetti Clorinda, Tisbe e Don Magnifico, la cui gestualità da marionette sembra alludere al carattere poco autentico dei loro sentimenti, e quelli “seri”, Cenerentola, Don Ramiro e Alidoro, i cui gesti sono molto più composti e, quindi, realmente umani. Unico appunto a questo impianto visivo originale e di indubbio interesse è la scelta, della quale si fa a volte abuso, di allargare il palcoscenico alla platea all’interno della quale sul finire del primo atto sono entrati Clorinda, Tisbe, Dandini e Don Ramiro. Coerenti e realizzati con gusto i costumi di Giovanna Gorgianni e perfettamente funzionali allo spettacolo le luci di Antonio Alario.
Passando all’aspetto musicale va segnalata la concertazione, caratterizzata, per quanto riguarda i tempi, da una lettura briosa della partitura, da parte di José Miguel Pérez-Sierra  sin dall’ouverture dove anche il tema del crescendo ha conquistato smalto e brillantezza. Il brio dei tempi non ha trovato una perfetta corrispondenza in quella leggerezza che ci si sarebbe attesi dalle sonorità, le quali, soprattutto nelle strette dei pezzi d’assieme, hanno soverchiato i cantanti. Intonazione e fraseggio curati hanno caratterizzato la prova di Laura Polverelli, un’Angelina scenicamente convincente che, tuttavia, per quanto attiene all’aspetto vocale, ha mostrato di essere più a suo agio nel settore acuto piuttosto che in quello centrale. Al suo fianco David Alegret si è distinto per una certa cura del fraseggio e grande senso dello stile, restituendo sulla scena un Don Ramiro veramente nobile sia sul piano vocale che scenico. Una vocalità possente e dal bel tirmbro brunito hanno evidenziato Vincenzo Taormina e Marco Bussi, rispettivamente, un Dandini frizzante e un Alidoro pienamente convincente e dalla linea di canto autorevole. Splendido attore, Luca Dall’Amico ha avuto il compito ingrato di sostenere una parte come quella di Don Magnifico di cui sono stati interpreti grandi bassi come Enzo Dara, famoso per i sillabati, che, purtroppo, nella sua prestazione, sia pure corretta nel fraseggio e nell’intonazione, non sono stati resi con quello stesso smalto. Infine, vocalmente ben centrate, Manuela Cucuccio e Sonia Fortunato sono state delle frizzanti ed eleganti interpreti di Clorinda e Tisbe e ottima la prova del coro, come sempre ben preparato da Luigi Petrozziello.


Teatro di San Carlo di Napoli: “Pikovaja Dama” (La dama di picche)

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Napoli, Teatro di San Carlo, Inaugurazione Stagione d’opera e danza 2019/2020
“PIKOVAJA DAMA” (La dama di picche)
Opera in tre atti su libretto di Modest Il’ič Čajkovskij dal racconto omonimo di Aleksandr S. Puškin.
Musica di Pëtr Il’ič Čajkovskij
Herman MISHA DIDYK  
Il conte Tomskij TOMAS TOMASSON
Il principe Eleckij MAKSIM ANISKIN
Liza ANNA NECHAEVA 
Polina AIGUL AKHMETCHINA
La contessa JULIA GERTSEVA
Čekalinskij ALEXANDER KRAVETS
Surin ALEXANDER TELIGA
La governante ANNA VIKTOROVA
Maša SOFIA TUMANYAN 
Čaplickij/Il cerimoniere GIANLUCA SORRENTINO
Narumov SEUNG PIL CHOI 
Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo
Direttore Juraj Valčuha
Maestro del Coro Gea Garatti Ansini
Regia Willy Decker (ripresa da Stefan Heinrichs)
Scene e costumi Wolfgang Gussmann
Luci Hans Toelstede (riprese da Wolfgang Schünemann)
Napoli, 15 dicembre 2019
Il San Carlo di Napoli inaugura la Stagione d’opera e danza 2019/2020 con Pikovaja Dama (La dama di picche), opera in tre atti di Pëtr Il’ič Čajkovskij, che fin da subito fu pienamente consapevole della preziosa particolarità, dell’evidente atipicità del lavoro. L’opera, che ebbe felice battesimo nel dicembre del 1890 al Teatro Mariinskij di San Pietroburgo, verte tra finzione romantica e fantasmagoria, tra infuocate passioni e bucolici frammenti di settecentesca memoria. Opere come queste, però, per il gusto romantico italiano, appaiono particolarmente noiose o difficili nell’ascolto, nonostante la fruibilità che interessa proprio la scrittura della Dama. Difatti, s’è dimostrata come azzardata la scelta d’inaugurare la stagione napoletana con un’opera atipica e desueta per le nostre scene. Difficoltà aggravata poi dalla scarsa pubblicità che l’evento ha ricevuto dai mass media, e dalla scelta d’affidare la regia a Willy Decker (ripresa da Stefan Heinrichs), con scene e costumi ideati da Wolfgang Gussmann e luci di Hans Toelstede, riprese da Wolfgang Schünemann. Il regista immerge i deliri, le visioni d’un cervello malato in una tetra non-realtà, privata delle essenziali coordinate spazio-temporali. La paralizzante eliminazione di aspetti solo apparentemente esterni – quali il tempo, lo spazio, il luogo – rende le figure come parlatori che fanno senza fare, come immersi sott’acqua. L’azione è tanto esasperata quanto innegabilmente immobile. L’agire illogico e intricato dei personaggi è ancora più finto, poiché appare come tale sullo sfondo del nulla, nella presenza scenica del niente. Amore, deliri d’onnipotenza, la malattia per il giuoco d’azzardo… accade tutto nello spazio vuoto e polveroso, soffusamente illuminato, d’una scatola nera, opprimente, intollerabile nella pesante monocromia; una realtà assente a se stessa, ed a tratti popolata da esplicative personificazioni, come quella della Morte, accolta dai mugugni dei napoletani più scaramantici. Tale alienazione, ovviamente, si riverbera sulle figure spersonalizzate. Cala il sipario e si dimentica tutto. La musica, però, protesta e rinnega questa visione scenica. La dicotomia tra orchestra, diretta da Juraj Valčuha, e palcoscenico è incontrovertibile. Il Maestro attira a sé la materia narrativa, facendola fluire in un racconto dall’ampio profilo sinfonico, caratterizzato da frammenti e somiglianze di mozartiana memoria e da vari leitmotiv elegantemente trasformabili. Si tratta del “russismo occidentalizzante” di Čajkovskij, investito d’una espressività infuocata ma, a tratti, quasi elegiaca: dal sole primaverile alla tempesta da manuale, infallibile nella sua forza effettistica e punteggiata da percussioni; tutti topoi operistici che non ostacolano l’unità compositiva e sonora, poiché pienamente amalgamati da Valčuha nel tessuto orchestrale. Ottimo esito per la compagnia di canto, avvolta in grigie divise e in abiti tardo-ottocenteschi, dalle tinte fredde. Misha Dydik ha la pienezza di voce che si domanda per il ruolo di Hermann, per il quale ci vuole una sorta di Heldentenor. Il temperamento spontaneo, degno del ruolo, gli consente d’apparire come infuocato, virile, garantendo così al folle ufficiale abbandoni lirici e segnatamente drammatici, con proiezione corposa, omogenea ed una emissione potentemente declamatoria. L’ottuagenaria e misantropa Contessa è magistralmente interpretata da Julia Gertseva. Il mezzosoprano, con voce aspra, volutamente cattiva,cupa, quasi soffocata nel grave, dipinge una megera tenuta in vita dal fuoco della nevrosi. Sottomessa ad essa, la povera nipote Liza è qui impersonata da  Anna Nechaeva. La voce ricca d’accenti dolenti, con una particolare propensione ai toni elegiaci, trova una perfetta corrispondenza nel delineare un personaggio dolentemente languido. Parimenti convincente c’appare anche il baritono Tómas Tómasson, che riesce a garantire al conte Tomshkij tutta la spavalderia degna della parte, soprattutto nella Ballata dell’Atto I, nel racconto del  mistero della Contessa, con voce ferma, possente, dal timbro segnatamente scuro, e dall’attraente cantabile. Notevole l’apporto del coro, magistralmente diretto da Gea Garatti Ansini. Ottime, poi, le prove vocali e teatrali di: Maksim Aniskin (il principe Eleckij); Aigul Akhmetchina (Polina); Alexander Kravets (Čekalinskij); Alexander Teliga (Surin); Anna Viktorova (la governante); Sofia Tumanyan (Maša); Gianluca Sorrentino (Čaplickij/il cerimoniere); Seung Pil Choi (Narumov). In conclusione, un titolo “fuori repertorio” (in un allestimento poco accattivamente) per il teatro napoletano, ha trovato da parte del pubblico un’accoglienza alquanto tiepida.

Torino, Teatro Regio: “Carmen”

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Torino, Teatro Regio. Stagione d’opera e di balletto 2019/20
“CARMEN
Opéra comique in quattro atti di Henry Meilhac e Ludovic Halévy dall’omonima novella di Prosper Mérimée
Musica di Georges Bizet
Carmen VARDUHI ABRAHAMYAN
Don José ANDREA CARÉ
Michaëla GIALIANA GIANFALDONI
Escamillo LUCAS MEACHEM
Frasquita SARAH BARATTA
Mercédès ALESSANDRA DELLA CROCE
Il Dancaïre GABRIEL ALEXANDER WERNICK
Il Remendado CRISTIANO OLIVIERI
Moralès COSTANTINO FINUCCI
Zuniga GIANLUCA BREDA
Lillas Pastias ALDO DOVO
Andrès MARCELLO SPINETTA
Una guida GIULIO CAVALLINI
Orchestra, coro del Teatro Regio, coro di voci bianche del Teatro Regio e del Conservatorio “G. Verdi” di Torino
Direttore Marcello Sagripanti
Maestro del coro Andrea Secchi
Maestro del coro di voci bianche Claudio Fenoglio
Regia Stephen Medcalf
Scene e costumi Jamie Vartan
Luci Simon Corder
Allestimento del Teatro Lirico di Cagliari
Torino, 15 dicembre 2019.
Dopo l’apertura di stagione con “Les Pecheurs des perles” è giunta l’ora di “Carmen” in quest’ autunno torinese nel segno di Bizet. Se per il titolo precedente si trattava della prima assoluta al Regio, la sorella maggiore è invece tra quelli più rappresentati sul palcoscenico torinese anche limitandosi agli ultimi anni. La sicurezza del legame esistente fra quest’opera e il pubblico ha spinto i responsabili artistici del Regio a una scelta coraggiosa e ammirevole: l’esecuzione integrale dell’opera senza tagli e con tutti i parlati originali. Scelta che non solo permette di godere l’opera come originariamente è stata concepita ma che dà allo svolgimento una logicità e una consequenzialità dei passaggi narrativi che tende a perdersi quando si attuano riduzioni della parte dialogata.Proveniente dal Teatro Lirico di Cagliari, lo spettacolo di Stephen Medcalf si fa apprezzare per rigore e pulizia. In un’opera già così ricca e quasi ridondante in sé è buona cosa per un regista non sovraccaricare ulteriormente la parte visiva di quel folklore di maniera che di “Carmen” rappresenta forse l’elemento più dotato per concentrarsi sulla scabra essenzialità delle relazioni umane che giustamente sono il centro del lavoro del regista inglese.
Sul piano cronologico la vicenda è trasposta agli anni della guerra civile spagnola, con atmosfere che ricordano quelle delle pagine di Hemingway. La trasposizione non stride assolutamente con la vicenda narrata – il libretto dell’opera manca di quei precisi dati d’inquadramento storico che ritroviamo nella novella di Merimée – e permette al regista di evitare facili bozzettismi. L’impianto scenico è essenziale: un grande muro curvilineo già chiude la scena all’apertura del sipario, muro che sarà quello della plaza de toros in cui si concluderà la vicenda. Questa prima struttura si apre lasciando spazio a un panorama spoglio e polveroso, con le calde luci del Mediterraneo che riflettono sui muri scalcinati  della manifattura dei tabacchi mentre nel II atto le stesse strutture diverranno i bastioni su cui si appoggia la locanda di Lillas Pastias. Il III atto cambia registro: con un gran colpo di teatro la scena si trasforma in un’improvvista pista aeronautica fra le montagne dove un aereo militare inglese atterra per rifornire di armi i compagni di Carmen, più guerriglieri repubblicani che semplici contrabbandieri. Si ritorna all’essenzialità nel IV con pochi lampioni a evocare la piazza su cui tornano a chiudersi le mura già viste in apertura dietro alle quali si compirà il delitto, non visto e per questo ancor più presente come nella tragedia attica classica. Molto curata la recitazione tanto dei solisti quanto – cosa più rara – delle masse. I costumi sobri e pienamente funzionali di Jamie Vartan (autore anche delle scene) completano alla perfezione la parte visiva.
Al debutto sul podio del Teatro Regio Giacomo Sagripanti fornisce una prova bifronte. Il direttore si fa apprezzare per la capacità di far suonare molto bene l’orchestra, per un colore orchestrale molto bello, caldo e morbido e per un tocco elegante molto francese. I tempi sono ampi, distesi, ma mai troppo slentati, il canto ben sostenuto. Di contro a tanto mestiere si contrappone ben poca fantasia; il tutto appare fatto molto bene ma è mancato quel guizzo di personalità che avrebbe potuto illuminare la prestazione. L’orchestra del Regio suona con la ben nota qualità e come sempre ottima la prova sia del coro sia del coro di voci bianche molto impegnato anche sul piano scenico in questa produzione.
Varduhi Abrahamyan sveste per una volta i panni guerrieri con cui è solita cimentarsi nel repertorio belcantista per indossare quelli della seduttrice operistica per antonomasia anche se qualche cosa di una particolare vocazione ai ruoli en-travesti si riconosce in un gesto spesso quasi virile che però non risultava improprio nel taglio complessivo dello spettacolo. La voce è innegabilmente molto bella, essendo un autentico mezzosoprano dal timbro scuro e profondo e dall’emissione morbida e omogenea mentre la frequentazione belcantista si palesa nella qualità complessiva del canto. Perfette dizione e prosodia – tanto nel canto quanto nel parlato – e presenza scenica magnetica. Sul piano interpretativo è evidente l’idea che la cantante ha del ruolo; la sua è una Carmen meno femme-fatale del solito, molto più incarnazione selvaggia e quasi ferina della libertà (in questo pienamente in linea con i riferimenti storico-politici dello spettacolo) che archetipo erotico-seduttivo.
Don José è affidato al giovane torinese Andrea Caré, allievo di Raina Kabaiwanska. Il tenore dispone di un materiale vocale decisamente interessante. La natura della vocalità è più lirica che drammatica ma mostra una buona robustezza anche nel settore medio grave con suggestive bruniture timbriche. La preparazione tecnica è impeccabile e si apprezza un canto ottimamente sostenuto sul fiato e un’emissione omogenea ed elegante che ha come punto di maggior risultato un’impeccabile lettura della “Romanza del fiore” arricchita da suggestive mezze voci. Sul piano interpretativo manca ancora un po’ di maturità; certe intuizioni interpretative appaiono più abbozzate che compiute anche se l’idea complessiva del personaggio, un ingenuo sconvolto da un’esperienza talmente grande da risultargli incomprensibile, nell’insieme, funziona e con un po’ più di esperienza potrà essere ancor meglio centrata.
Giuliana Gianfadoni è una Micaëla virginale. Voce piccola ma luminosa e cristallina, ottimo controllo del fiato – molto bella la smorzatura con cui ha chiuso l’aria del III atto – accento accorato e partecipe. Imponente nel fisico e di buona baldanza vocale, l’Escamillo di Lucas Meachem è decisamente troppo carente sul piano della personalità e della qualità interpretativa rendendo il personaggio decisamente poco affascinante.Ben centrato il quartetto dei contrabbandieri composto da Sarah Baratta (Frasquita), Alessandra della Croce (Mercédès), Gabriel Alexandeer Wernick (Il Dancaïre) e Cristiano Olivieri (Il Remendado). Riuscito sia vocalmente che scenicamente lo Zuniga di Gianluca Breda, solido e con la giusta dose di simpatia il Moralès di Costantino Finucci  e pienamente funzionali gli attori cui erano affidati i piccoli ruoli solamente parlati e che per una volta non hanno dovuto limitarsi alla parte mimica. Sala gremita e successo convinto per tutti gli interpreti; l’anno del Regio si chiude con un sincero successo in attesa delle interessanti proposte previste per i prossimi mesi.

Teatro Carlo Felice di Genova: “La Bohème”

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Genova, Teatro Carlo Felice, Stagione d’Opera 2019-2020
LA BOHÈME
Opera in quattro quadri su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, dal romanzo Scenès de la vie de bohème di Henri Murger.
Musica di Giacomo Puccini
Mimì REBEKA LOKAR
Rodolfo STEFAN POP
Marcello MICHELE PATTI
Musetta LAVINIA BINI
Colline ROMANO DAL ZOVO
Schaunard GIOVANNI ROMEO
Benoit e Alcindoro MATTEO PEIRONE
Parpignol GIULIANO PETOUCHOFF
Sergente dei doganieri ROBERTO CONTI
Un doganiere ALESSIO BIANCHINI
Un venditore ambulante ANTONIO MANNARINO
Orchestra, Coro e Coro di Voci Bianche del Teatro Carlo Felice

Direttore 
Andrea Battistoni
Direttore del Coro Francesco Aliberti
Direttore del Coro di Voci Bianche Gino Tanasini
Regia Augusto Fornari
Scene e Costumi Francesco Musante
Luci Luciano Novelli riprese da Angelo Pittaluga
Allestimento Fondazione Teatro Carlo Felice
Genova, 13 dicembre 2019
La Bohème” correntemente replicata al Carlo Felice, non è nuova, ne abbiamo scritto in più di una occasione e, almeno per il pubblico genovese, ha un che di iconico e quasi “leggendario”, dovuto sia alla sua estetica nettissima, sia all’autoctonia di tutto il team creativo. Eppure rivederla in scena (con qualche aggiustamento dal 2012), pone almeno una questione che colleghi, di caratura certo migliore della mia, sembrano non aver voluto considerare – il famoso elephant in the room, come lo definiscono oltreoceano: fin dove si può spingere una messa in scena? È un quesito che altre volte ci siamo posti, cui è impossibile dare una sola risposta, e proprio per questo è sempre positivo riporselo, qualora ciò che vediamo ce lo riporti alla mente. L’occasione qui è proprio azzeccata: le scene e i costumi, infatti, sono opera riconoscibilissima di un apprezzato artista serigrafo contemporaneo, Francesco Musante, e la regia è affidata a un volto “giovane” del nostro cinema e teatro, Augusto Fornari, adiuvato da un altro giovane, Lorenzo Giossi. La scelta operata è, tuttavia, azzardata, per quanto riguarda Fornari e Giossi, per la poca esperienza nel settore, per quanto riguarda Musante, invece, per la natura stessa delle sue opere: tutta la scena e i costumi, infatti, sono pervasi di rutilante e colorata naïveté, ricreando un mondo da illustrazione acquarellata, da carillon, da bottega di giocattolaio d’altri tempi. La soffitta è una casetta delle bambole, il Momus un teatrino di carta, la dogana la cartolina di un inverno di tanti anni fa; i costumi sono tutti idi gusto “circense”: sgargianti, rigati, lucidi; le luci (di Luciano Novelli, qui riprese da Angelo Pittaluga) sono calde, illuminano dall’interno, per dare ancora di più questa idea di diorama d’infanzia gioconda e sognante, dolce e clownesca; l’intero boccascena è poi incorniciato da queste illustrazioni, che compongono anche il sipario, vera opera d’arte, nel suo genere. Va tutto benissimo, non è certo il primo artista contemporaneo a “prestarsi” all’opera. Tuttavia l’opera in questione, pur avendo momenti di allegria e leggerezza, è un dramma macerante, che coinvolge argomenti sociali forti, come la povertà, la malattia, la deriva culturale: il contesto in cui viene qui inserito stride enormemente con queste tematiche “adulte”, senza considerare la passione amorosa (fatta di desiderio, disperazione, gelosia) che coinvolge le due coppie protagoniste. Una messinscena di questo tipo sarebbe stata valorizzata maggiormente in un contesto di opera buffa, o per lo meno a lieto fine: in questa “Bohème” latita la stimmung stessa della vita maledetta e controversa che il termine “bohème” lascia intendere, e, purtroppo inevitabilmente, lo spettatore meno ingenuo storce il naso di fronte a Mimì nascosta dietro un pupazzo di neve, i quadri di Marcello come le tavole di educazione artistica delle scuole medie, al praticabile rotante della scena (è il terzo in tre produzioni, basta!) attivato con una enorme chiave da ingranaggio meccanico, e altre scioccherelle atrocità. Il commento di certo pubblico è “Bello, ma non è La Bohème”, e come dargli torto? Purtroppo anche sul fronte musicale la produzione non si può dire davvero riuscita: la direzione di Andrea Battistoni è decisamente personale, con continui rubati cui anche i cantanti sembrano poco avvezzi (non poche le discrasie tra palco e buca); se l’energia del Maestro è perfetta per un atto come il secondo, sul terzo e il quarto ci lascia dubbiosi, essendo abituati a un abbandono più misurato e a una maggiore coesione anche tra cantanti, che in effetti è latitata; Puccini è tra i più insidiosi da dirigere, proprio per una sostanziale “schizofrenia”, che in ogni opera ricopre quasi l’intera gamma del sentimento: ci è parso che Battistoni si focalizzasse solo sull’appassionato, tragico, burlesco… tralasciando le sfumature intermedie, i portamenti di una partitura senz’altro non tra le migliori del genio toscano, ma ricchissima proprio di queste sfumature. Parimenti possiamo pronunciarci circa alcuni interpreti: Rebeka Lokar nonostante le indubbie qualità vocali, è una Mimì un po’ incolore (benché vestita di fucsia), convenzionale, senza un guizzo musicale, senza una linea interpretativa, sia essa musicale o scenica – gli stessi dubbi che nutrivamo sulla sua Leonora nel recente “Trovatore” genovese. Neppure  Lavinia Bini brilla: la sua è una Musetta evanescente, vocalmente fragile nella proiezione, per quanto intonata e coinvolta. Anche lo Schaunard di Giovanni Romeo e il Colline di Romano Dal Zovo non svettano particolarmente, rimanendo su un generale livello di correttezza, mentre Michele Patti nei panni di Marcello convince grazie alla cura della linea di canto e del fraseggio. Stefan Pop (Rodolfo) si conferma cantante di rilievo, mostra però una certa tensione in acuto ed è poco focalizzato sulla gamma espressiva che di solito ama esplorare: ci auguriamo si tratti di una stanchezza temporanea. Nel segno della correttezza gli altri ruoli: Matteo Peirone (Benoit / Alcindoro), Giuliano Petouchoff (Parpignol), Roberto Conti (Sergente dei doganieri), Alessio Bianchini (un doganiere), Antonio Mannarino (Un venditore ambulante). I cori del Teatro Carlo Felice (diretti dai maestri Francesco Aliberti e Gino Tanasini) danno prove sempre al di sopra del soddisfacente, con particolare plauso per il Coro di Voci Bianche, dalla dizione chiara e un’apprezzabile coesione. Il pubblico in sala applaude a tutto e tutti con convinzione, sia a scena aperta, sia sul finale: capiamo, ma dissentiamo.

Teatro Coccia di Novara: “Suor Angelica”&“Cavalleria rusticana”

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Novara, Teatro Coccia, Stagione d’Opera 2019-2020
SUOR ANGELICA
Opera in quattro quadri su libretto di Giovacchino Forzano.
Musica di Giacomo Puccini
Suor Angelica MARTA MARI
La Zia Principessa ANASTASIA BALDYREVA
La Badessa LUCREZIA VENTURIELLO
La Suora Zelatrice ELENA CACCAMO
La Maestra delle novizie EVA MARIA RUGGIERI
Suor Genovieffa GIULIA DE BLASIS
Suor Osmina VERONICA NICCOLINI
Suor Dolcina LAURA ESPOSITO
La Suora Infermiera VERONICA SENSERINI
Prima novizia VALENTINA SACCONE
Seconda novizia LAURA SCAPECCHI
Prima cercatrice ISABEL LOMBANA MARIÑO
Seconda cercatrice SOFYA YUNEEVA
Prima conversa SABRINA SANZA
Seconda conversa GALINA OVCHINNIKOVA
CAVALLERIA RUSTICANA
Melodramma in un atto, su libretto di Giovanni Targioni Tozzetti e Guido Menasci, dalla omonima novella di Giovanni Verga
Musica di Pietro Mascagni
Santuzza DONATA D’ANNUNZIO LOMBARDI
Turiddu AQUILES MACHADO
Alfio SERGIO BOLOGNA
Mamma Lucia ANASTASIA BOLDYREVA
Lola MARTA MARI
Orchestra Filarmonica Pucciniana
Coro Ars Lyrica
Coro di Voci Bianche della Fondazione Teatro Goldoni
Direttore 
Daniele Agiman
Maestro del Coro Chiara Mariani
Maestro del Coro di Voci Bianche Laura Brioli
Regia Gianmaria Aliverta
Scene Francesco Bondì
Costumi Sara Marcucci
Luci Elisabetta Campanelli
Nuovo allestimento in coproduzione Teatro Goldoni di Livorno, Teatro Coccia di Novara e Teatro Sociale di Rovigo
Novara, 14 dicembre 2019
Pochi sanno che Puccini e Mascagni, i due giganti della musica verista, erano amici, e addirittura erano stati coinquilini a Milano. Non ci deve dunque apparire troppo strana la scelta del Teatro Coccia di Novara di anteporre alla sempre celebrata “Cavalleria rusticana”, la pucciniana “Suor Angelica”, secondo capitolo del “Trittico”, e, di conseguenza, operina a sé, di gusto eminentemente crepuscolare (l’ispirazione nemmeno troppo velata è la “Sonata in bianco minore” di Sergio Corazzini, accanto a Govoni, Palazzeschi, Pascoli, Ada Negri e compagnia), di certo meno famosa dell’atto unico di Mascagni. La produzione di questo dittico riserva però risultati alterni. Senza dubbio i punti di forza sono alcune componenti del cast: Marta Mari è una Suor Angelica convincente, dalla linea di canto pulita e il curatissimo fraseggio. Il coinvolgimento scenico che dimostra, spesso fatto di piccoli dettagli, si ritrova pienamente nel canto, con bellissimo dispiego di  mezzevoci e filati. La ritroviamo, poi, nell’insolito ruolo, usualmente mezzosopranile, di Lola: anche qui bella la resa vocale, meno quella scenica – senza dubbio penalizzata da un costume poco adatto alla sua figura. In ogni caso, anche come Lola la giovane interprete bresciana può ben dirsi soddisfatta del suo lavoro. Altrettanto positiva la prova di Donata D’Annunzio Lombardi, una Santuzza appassionata ma capace di grande cura espressiva, anche scenicamente molto presente. La D’Annunzio Lombardi si riconferma vocalista dalla tecnica solida e così come altre volte (soprattutto nei ruoli del Puccini maturo), delinea con naturalezza le molte sfumature che il grande Verismo vuole conferire ai suoi personaggi (spesso, a torto, grossolanamente identificati solamente con indoli aggressive e volumi roboanti). Giudizio favorevole anche per il mezzosoprano russo Anastasia Boldyreva, chiamata a mettere in luce una tessituracontraltile sicura ed elegante. Il fraseggio è senz’altro da arricchire, specialmente nel ruolo della Zia Principessa – ruolo tra i più complessi della produzione per contralto. Come Mamma Lucia, invece, la situazione è decisamente più semplice, anche se fatichiamo a vedere l’attraente Boldyreva nei panni dell’anziana vedova. Vocalmente qualche tinta più senile contribuirebbe a rendere più credibile l’interpretazione. Per quanto riguarda i vari ruoli in  “Suor Angelica”, l’esito d’insieme è senz’altro buono, riuscendo a dare davvero una resa collettiva delle abitanti del chiostro, delle loro speranze condivise, della loro familiarità; le prove che si fanno maggiormente ricordare in positivo sono quelle della Badessa di Lucrezia Venturiello (voce piena e ricca di colori, al servizio di un ruolo ben caratterizzato) e di Giulia de Blasis, una Suor Genovieffa dalla linea di canto pulita e dal timbro  pastoso e morbido. Del cast maschile di “Cavalleria rusticana”  l’Alfio di Sergio Bologna è interpretato con la sicurezza di un artista di grande esperienza, pur senza troppo piglio, il Turiddu di Aquiles Machado forse non serata, è stato manchevole sia dal punto di vista tecnico-vocale che da quello scenico; la dizione  approssimativa,  certo, il timbro è bello, la sonorità ampia e sana, ma non bastano queste caratteristiche a costruire a dovere un personaggio, ancor più uno complesso e sfaccettato come quello creato da Verga. Senz’altro il contesto realizzato sul palco dal team creativo non si può definire d’aiuto perché la credibilità o la grazia emergano: la regia di Gianmaria Aliverta alterna, infatti, (pochi) lampi di genio a diverse scelte per lo meno opinabili – talvolta guidate da facili simbolismi (come le vesti schizzate di fango delle suore, ad eccezione, naturalmente, dell’immacolata Suor Angelica), altre da ragioni imperscrutabili (il costume della Zia Principessa, moderno, in un contesto che strizza, sia da libretto che da scenografie, l’occhio al Seicento). Bella l’idea di una scena unica “rivoltata” per entrambi gli atti unici: “Suor Angelica” ambientata all’interno di un monastero, “Cavalleria” nell’adiacente Chiesa e immediatamente fuori da essa. Simpatiche, ma fuori luogo, le caratterizzazioni di alcuni personaggi: la Suora Zelatrice sadomaso e arcigna fuor di misura, che pare uscita da “L’indiscreto fascino del peccato” di Almodóvar (pellicola che adoriamo, ma troppo distante dalle diafane atmosfere crepuscolari), e un Alfio venditore ambulante di chincaglierie religiose kitsch e variopinte, che perde la sua nota sanguigna e ostentatamente virile per trasformarsi in un grottesco imbonitore (con, peraltro, un Bologna in evidente imbarazzo). Le scene di Francesco Bondì sono belle, forse un po’ troppo ridondanti (i fondali in velluto rosso alla lunga stemperano l’atmosfera, così come il cuore gigante pugnalato, più adatto al tatuaggio di un marinaio che al rigore che dovrebbe contraddistinguere queste opere), ma ben costruite e ben congeniate sui vari livelli – un brillante uso delle proiezioni accanto a scenografie à l’ancienne. Discutibili ci sono parsi, invece, i costumi di Sara Marcucci, tra una Badessa/Papessa e una Lola mortificata in una modesta camicetta e minigonna H&M. Ottima la resa del Coro Ars Lyrica diretto da Chiara Mariani, specialmente nella potente ed evocativa Messa dell’opera di Mascagni. La direzione del Maestro Daniele Agiman ci è parsa generalmente corretta, col pregio di tenere pienamente sotto controllo scena e buca. Senz’altro le ricche parti orchestrali di “Cavalleria” gli hanno concesso di far emergere lo stesso languore riservato a “Suor Angelica”, più che la bruciante energia che si vorrebbe trasudasse da quelle pagine. Il pubblico, nella non gremita sala del Coccia, riconosce a tutti i propri meriti con applausi generosi sul finale, mentre l’unico strappato a scena aperta è quello alla celebre “Senza mamma”, giusto coronamento della notevole prova di Marta Mari.

Teatro Comunale di Modena: “La notte di Natale”

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Modena, Teatro Comunale “L. Pavarotti”, Stagione d’Opera 2019-2020
LA NOTTE DI NATALE
Opera fantastica in un atto su libretto di Simone Pintor, dall’omonimo racconto di Nikolaj Vasil’evič Gogol’
Musica di Alberto Cara
Ocsana/la Zarina FLORIANA CICIO
Soloca
ALOISA AISEMBERG
Nikolaj RAFFAELE FEO
Il Diavolo DANIEL KIM SUNGGYEUL
Ensemble del Teatro dell’Opera Giocosa
Coro di Voci Bianche della Fondazione Teatro Comunale di Modena
Direttore 
Diego Ceretta
Regia Simone Stefano Pintor
Scene e Costumi Mariangela Mazzeo
Luci Marco Alba
Coproduzione e Commissione Teatro dell’Opera Giocosa di Savona e Fondazione Teatro Comunale di Modena
Modena, 15 dicembre 2019
Dmitrij Šostakhovič adorava Gogol’: la seconda opera per il teatro che scrisse (la prima arrivataci per intero) fu proprio l’atto unico “Il naso” del 1928, tratto da un celebre “Racconto di San Pietroburgo”. Tredici anni dopo ci riprovò con “I giocatori”, ma abbandonò dopo poco l’impresa – dubbioso sulla sovieticità dell’operazione, ma ancor più sulla scelta del testo, “troppo ampio” (per citare le sue stesse parole a riguardo) per stare in un altro atto unico, com’era sua intenzione. Il musicologo Krzysztof Meyer penserà bene di completare l’opera nell’83, con un risultato, in effetti, forse non dei più riusciti. Prima di questi, solo un racconto di Gogol’ era stato portato in musica, per ben tre volte: è “La notte prima di Natale”, che è divenuta tra le dita di Čajkovskij prima “Il fabbro Vakula” e poi “Gli stivaletti”, e che sotto quelle di Rimskij-Korsakov riacquisì il suo titolo originario, oltre che un grande successo anche fuori dai confini russi. È quindi piuttosto interessante che Simone Pintor (librettista e regista) e Alberto Cara (compositore) abbiano deciso di lavorare proprio su questo stesso testo; l’invito loro giunto dal Comunale di Modena e l’Opera Giocosa di Savona è senz’altro onorato da questa scelta, che però nasconde un’insidia su tutte: un soggetto natalizio e con elementi magici rischia di sforare nel bambinesco, nell’opera-ragazzi, sminuendo in effetti la suggestiva portata allucinata e sofferta di cui si pretende si faccia carico. Spiace dirlo, ma in questa trappola gli autori sono caduti fino al collo: e non solo per la presenza del coro di voci bianche a sottolineare alcuni momenti (e l’assenza di quello di adulti), ma anche per la concezione vagamente pagliaccesca di molti personaggi e dinamiche, quali la strega Soloca e il Diavolo, oltre che per l’inserimento all’interno della partitura di un paio di canti tradizionali, degni dello spettacolo di Natale di qualsivoglia quinta elementare che si rispetti (la celebre “Carol of the Bell”, tratta a sua volta dallo “Ščedrik” di Mikola Leontovič del 1916, e “God rest ye merry, gentlemen”, canto inglese del XVI secolo citato da Dickens in “A christmas carol”). Le caratteristiche demoniache e stregonesche della novella (care a Gogol’ anche in altri lavori) vengono stemperate in un libretto acquoso e privo di poetica, che nemmeno si fa mancare la morale pauperista finale, del tutto avulsa dal contesto fiabesco e dal senso più vero della storia – e cioè la forza dell’amore e della virtù che riescono a superare ogni difficoltà. La partitura per ensemble di sette elementi (violino, violoncello, trombone, clarinetto, flauto, pianoforte e percussioni) di per sé, invece, sa mantenersi bene in equilibrio tra tradizione tonale e sperimentazione, regalando momenti di misurato lirismo, ma, purtroppo, anche abbandonandosi a parentesi più easy listening, come il moralistico finale di cui sopra, peraltro reso ancora più antipatico dalle voci bianche a sottolinearlo. Il risultato è deludente per tutti: gli adulti non ritrovano ciò che gli è stato promesso dal riferimento a Gogol’, i bambini fanno comunque fatica a seguire un’opera simile, mostrando più di una volta noia ed irrequietudine in sala. La regia, sempre di Pintor, ambienta nella contemporaneità la vicenda (che, ridotta al midollo dell’osso nel libretto, potrebbe essere pure ambientata su Marte), muovendo i cantanti in luoghi evanescenti dagli oggetti simbolici ma di non sempre chiara lettura – perché un semaforo in scena? E perché il protagonista (che qui diventa Nikolaj) è un fattorino? La nota degli autori non chiarisce questa scelta traspositiva: vi si parla di “sagace critica alla società” del racconto di Gogol’, che invece è una fiaba bell’e buona, con minimi riferimenti al suo tempo – tant’è vero che è ambientato nel XVIII secolo, il secolo della fiaba europea par excellence, circa cent’anni prima la nascita del suo autore. Insomma, le prerogative ottime e certo ambiziose del progetto non hanno trovato risultati convincenti. Dei diversi personaggi previsti in Gogol’, e nelle trasposizioni precedenti a questa, ne vengono salvati cinque: il protagonista Nikolaj, la strega Soloca, sua madre, la sua bella Ocsana, la Zarina e il Diavolo. Il primo è interpretato con convinzione e bella voce tenorile da Raffaele Feo, che si presta molto anche alla prova scenica: il fraseggio è tuttavia perfettibile, così come la gestione dell’emissione, qua e la discontinua; pienamente positiva è invece la prova di Floriana Cicio, ventunenne soprano siciliano che proprio a Modena si sta specializzando: il volume è apprezzabile, pur rimanendo in un registro lirico-leggero, il timbro è morbido, il fraseggio vario. La  scena della Zarina è certamente la più riuscita dell’opera, auguriamoci di poterla riascoltare presto in altri ruoli. Meno a fuoco ci sono parsi gli interpreti dei due personaggi grotteschi: Aloisa Aisemberg (Soloca) non sembra del tutto a suo agio in questo ruolo, e la sua interpretazione vocale è parsa insicura nellintonazione. Anche Daniel Kim Sunggyeul nella parte del Diavolo è, in verità, poco diabolico, ma più orientato al comico, per accattivarsi il giovane pubblico in sala.  Voce apprezzabile, anche se non sempre a fuoco nella proiezione e nella dizione. Coinvolgente e ben attenta alla sincronicità è la direzione del maestro Diego Ceretta, che in più di un punto ci fa dimenticare di stare ascoltando soli sette elementi, cercando di tirar fuori da quelli tutti i volumi e l’espressività che possono dare. Corretto l’apporto delle Voci Bianche del Comunale
. Il pubblico in sala riconosce all’operina ampio consenso di applausi sul finale, ma forse sono più indicativi della sua riuscita il costante brusio che accompagna l’intera recita e i commenti spaesati del pubblico di ogni età all’uscita. Peccato.

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