Marseille, Auditorium du Pharo: Alexandra Conunova en concert
Richard Strauss (1864 – 1949) – 16 “Die schweigsame Frau” (1935)
Richard Strauss (Monaco di Baviera 1864 – Garmisch-Partenkirchen 1949)
Die schweigsame Frau (La donna silenziosa) op. 80, Komische Oper in tre atti su libretto di Stefan Zweig tratto dalla commedia “Epicoene, or the silent woman” di Ben Jonson
Prima rappresentazione: Dresda, Staatsoper, 24 giugno 1935.
“Dopo la morte del fedele e geniale Hugo von Hofmannsthal dovetti ammettere con rassegnazione che la mia produzione operistica si era conclusa… Hofmannsthal è stato l’unico poeta che oltre a forza poetica e talento scenico possedesse quel grado d’immedesimazione capace d’offrire a un compositore opere teatrali musicabili, di scrivere insomma un libretto adatto alla scena, di notevole valore letterario e, non meno, che si prestasse alla musica. Io ho fatto l’occhiolino ai migliori poeti tedeschi, perfino a D’Annunzio, e sono entrato in trattative con loro (ripetutamente con G. Hauptmann); ma in cinquant’anni ho trovato solo il meraviglioso Hofmannsthal. Egli non possedeva solo inventiva per soggetti musicali; sebbene poco musicale e, come Goethe, dotato solo di intuizione, egli aveva una sagacia davvero prodigiosa per ciò che rispondeva alle mie esigenze”.
Se la morte del meraviglioso Hofmannsthal, avvenuta il 15 luglio 1929, sembrava aver posto fine alla sua carriera di operista, i tarlo del teatro, tuttavia, continuava a roderlo tanto da spingere Strauss a rivolgersi ai migliori poeti tedeschi e perfino a D’Annunzio senza alcun esito positivo. Dopo due anni di infruttuosa ricerca, nel 1931 Strauss incontrò il suo nuovo librettista in circostanze del tutto casuali; quell’anno, infatti, ricevette per caso la visita dell’editore Anton Kippenberg, diretto a Salisburgo per incontrare lo scrittore Stefan Zweig, del quale il compositore aveva avuto modo di vedere a Vienna la versione moderna del Volpone di Ben Jonson e la divertentissima commedia L’agnello moderno. Senza particolare convinzione Strauss, allora, disse, quasi per celia, a Kippenberg di chiedere a Zweig se aveva un soggetto da proporgli per una nuova opera; lusingato da questa proposta, Zweig non perse tempo e rispose subito con una lettera, nella quale affermava di avere alcune interessanti idee per dei soggetti che, tuttavia, non aveva osato proporgli forse per una forma di rispetto nei confronti del grande compositore. Fu lo stesso Zweig, nel suo libro di memorie, Il mondo di ieri, a raccontare con una certa dovizia di particolari la collaborazione con Strauss, iniziata dopo un incontro a Monaco avvenuto il 20 novembre 1931:
“Mi dichiarai pronto e subito al primo incontro proposi a Strauss di scegliere ad argomento di opera il tema «The silent woman» di Ben Jonson e fu una grata sorpresa per me vedere con quanta rapidità e limpidezza Strauss accolse tutte le mie proposte. Non avrei mai supposto in lui una così pronta intelligenza artistica ed una cosi stupefacente conoscenza drammaturgica.
Mentre gli stavo raccontando l’argomento egli lo plasmava drammaticamente e lo adattava anche subito, il che era ancora più straordinario, ai limiti della sua capacità creativa, di cui si rendeva conto con una chiaroveggenza quasi spaventosa. Ho conosciuto molti grandi artisti in vita mia, mai però uno che sapesse conservare in modo cosi astratto ed indefettibile l’oggettività di fronte a se stesso. Subito al primo colloquio, Strauss mi confessò apertamente di sapere benissimo come un musicista a settant’anni non possegga più l’energia originaria dell’ispirazione. Non gli sarebbero più riuscite opere sinfoniche come «Till Eulenspiegel» oppure «Morte e trasfgurazione», giacché appunto la musica pura esige un massimo di freschezza creativa.
Però la parola valeva ancor sempre ad ispirarlo. Si sentiva in grado di illustrare drammaticamente una sostanza già preesistente, perché dalle situazioni e dalle parole si sviluppavano in lui spontaneamente temi musicali: per questo si era dato ormai, nei suoi tardi anni, in modo esclusivo all’opera. Sapeva anche benissimo che l’opera è in fondo forma artistica superata. Wagner è tale vetta, che nessuno può andare al di là. «Però», aggiungeva con la sua ampia risata bavarica, «io me la son cavata facendogli un giro attorno. «A me non vengono in mente melodie lunghe come quelle di Mozart. Io non arrivo che a temi brevi, ma quel che so fare, è voltare e parafrasare poi un tema, cavandone tutto quanto contiene, e credo che in questo oggi nessuno mi superi.» Rimasi ancora una volta stupefatto da tanta sincerità, giacché è vero che in Strauss non si trovano quasi mai melodie che vadano oltre un paio di battute; ma con quanta perfezione e pienezza vengono poi – come nel valzer del «Cavaliere della rosa» – elaborate e sfruttate quelle poche battute! Ad ogni nuovo incontro dovevo ammirare la sicurezza e l’oggettività con cui il vecchio maestro si poneva di fronte a se stesso nella propria opera […]Non lo interessava troppo invece sapere quanto gli altri significassero in paragone a lui, ed ancor meno come lo giudicassero gli altri. Quel che gli dava gioia era il lavoro in sé.
Questo «lavorare» è un singolare processo in Richard Strauss. Nulla di demoniaco in lui, non conosce il raptus dell’artista, non le depressioni e le disperazioni note attraverso la biografia di Beethoven o di Wagner. Strauss lavora con calma e freddezza, compone – al pari di Johann Sebastian Bach e di tutti i sublimi artigiani della loro arte – calmo e regolare” (S. Zweig, Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo, Mondadori, Milano, pp. 294-295)
Nel mese di giugno del 1932 Zweig consegnò l’abbozzo del libretto di Die schweigsame Frau (La donna silenziosa), tratto dalla commedia Epicoene, or the silent woman di Ben Jonson, il cui soggetto è simile al Don Pasquale di Donizetti; il libretto fu accolto con entusiasmo da Strauss che, pienamente soddisfatto del lavoro del suo poeta, ricevuto anche il testo dell’ultimo atto, il 24 gennaio 1934, lo ringraziò riprendendo i versi di un vecchio Lied che recitavano: “Sì, l’averti trovata, mia dolce creatura, fa lieto ogni giorno che a me sia concesso”.
L’opera, completata il 20 ottobre 1934 con una certa rapidità e soprattutto senza che Strauss chiedesse a Zweig alcuna modifica al libretto, andò in scena per la prima volta a Dresda il 24 giugno 1935 sotto la direzione di Karl Böhm con Maria Cebotari (Aminta), Friedrich Plaschke (Sir Morosus), Martin Kremer (Henry Morosus), Mathieu Ahlersmeyer (Barbiere), Kurt Böhme (VanuzzI), Erna Sack (Isotta), Ludwig Ermold (Farfallo); l’opera, tuttavia, fu accolta con una certa freddezza dovuta anche a ragioni di natura politica e razziale, in quanto Zweig fu colpito dall’antisemitismo del Reich che pretese la cancellazione del suo nome dai manifesti. La stessa opera, del resto, fu cancellata dal cartellone alla terza replica e a Strauss fu tolta la presidenza del Reichsmusikkammer; gli era stata intercettata, infatti, dalla Gestapo una lettera indirizzata a Zweig in cui il compositore criticava l’antisemitismo affermando che non era importante a quale razza appartenesse il pubblico che pagava, quanto che comprendesse l’arte occidentale. Una certa tensione tra Germania e Italia e un tentativo, quindi, di fare un dispetto ad Hitler furono probabilmente alla base della decisione di mettere in scena l’opera alla Scala nel 1936 sotto la direzione di Gino Marinuzzi, fervente ammiratore di Strauss. In quest’occasione l’opera non riscosse un grande successo presso il pubblico, nonostante gli apprezzamenti da parte della critica.
Sul piano drammaturgico l’opera appariva troppo lunga e lo stesso Zweig notò, già subito dopo la prima, che la sua eccessiva lunghezza era ad essa di nocumento:
“Essa è ben troppo lunga e pazzamente difficile, proprio il contrario di quello che avevo sognato: non un’opera leggera, ma gravata di tutte le raffinatezze e quasi opprimente per la sua ricchezza”.
In virtù di queste considerazioni Böhm, riprendendo l’opera nel 1959 a Salisburgo, apportò dei tagli e Die schweigsame Frau si è affermata in una versione abbreviata.
Atto primo
L’opera è introdotta da un breve e brillante brano sinfonico intitolato Potpourri, in quanto costruito con alcuni dei suoi temi principali in una scrittura giocosa che fa dell’ambiguità ritmica tra il ¾ e il 6/8 il suo elemento fondante. In ¾ è il semplice moto perpetuo introdotto dal corno che intona un tema del terzo atto, mentre in 6/8 è il giocoso, quasi rossiniano tema, affidato ai primi violini.
Intorno al 1760 Sir Morosus, un vecchio capitano in pensione che odia ogni forma di rumore dopo essere sopravvissuto ad una paurosa esplosione avvenuta nella nave da lui comandata, vive nella sua casa situata in un sobborgo di Londra insieme con la sua governante, eccessivamente ciarliera. Nella scena iniziale, tutta giocata su uno dei brillanti temi già uditi nell’ouverture Potpourri, la donna apre la porta al Barbiere con il quale ha un violento battibecco, ben sostenuto dalla brillante, leggera e onomatopeica orchestra. L’uomo, infatti, si prende gioco della governante che vorrebbe il suo l’aiuto per indurre Sir Morosus a sposarla. Il vecchio capitano, svegliato dall’alterco, entra in scena lanciando invettive, di origine marinaresca, contro la donna (Da eine in deine Takelage). Rimasti soli, i due uomini, in uno stile discorsivo al quale non sono estranee alcune interessanti incursioni nel parlato, discutono del matrimonio; il Barbiere tesse le lodi della vita coniugale accompagnato sempre da una scrittura leggera mentre Sir Morosus, appesantito e imbrigliato sia da temi che tendono al parlato sia da un accompagnamento orchestrale grottesco, afferma la sua contrarietà. Il Barbiere, al quale Strauss affida una deliziosa arietta (Es wird abend) che si segnala per un accompagnamento orchestrale leggero grazie anche all’uso dei legni, propone al suo interlocutore di sposare una donna silenziosa. Da parte sua anche Sir Morosus mostra di sapersi abbandonare a momenti di lirismo quali l’aria Irgenwen zu wissen in ¾, che ricorda il tema iniziale del corno del Potpourri, accompagnata dai soli archi in una scrittura omoritmica. In questa lunga scena c’è spazio anche per una Canzone affidata ad entrambi i personaggi (Mädchen nur), nella quale alla proposta del Barbiere di prendere moglie, Morosus risponde in modo negativo adducendo come scusa la sua vecchiaia.
Proprio quando l’uomo sembra quasi convinto dalle argomentazioni in favore del matrimonio addotte dal Barbiere, giunge Henry, nipote carissimo di Morosus da lui creduto morto e che riabbraccia con gioia. Le sorprese per Morosus non sono finite dal momento che l’anziano capitano apprende che il nipote, abbandonati gli studi, si è unito a una compagnia teatrale diretta da Cesare Vanuzzi; l’uomo non comprende subito che si tratta di una compagnia teatrale anche perché la parola «Truppen» può anche significare truppe e, ritenendo che il nipote si sia arruolato nell’esercito, si abbandona a una grottesca marcia. La sua gioia si tramuta in ira quando Henry svela l’equivoco aggiungendo di aver sposato una giovane attrice, Aminta; Morosus, dopo un breve concertato a cui partecipano gli altri attori della compagnia, caccia tutti non prima di aver ordinato al Barbiere di procurargli una sposina per l’indomani stesso in modo da diseredare lo snaturato nipote. Gli artisti, da parte loro, offesi, durante il concertato inveiscono contro Morosus accusandolo di essere arrogante. Il Barbiere, allora, trama insieme con gli artisti una vendetta ai danni di Morosus che intende beffare inscenando un finto matrimonio capace di sconvolgerlo al punto tale da perdonare il nipote. Nella scena si possono riscontrare momenti di soave e piacevole lirismo come: la canzoncina del Barbiere Da unten im keller, dalla quale hanno origine una serie di pezzi d’assieme; il tenero duettino tra Aminta ed Henry (Nicht an mich) e, infine, una stilizzata arietta settecentesca di Isotta, una delle attrici della compagnia (Ich würde lachen). Il Finale, aperto da Henry (Ja das wollen), è una pagina brillante di elevata fattura contrappuntistica nella quale ritornano i disegni in semicrome già uditi nel Potpourri.
Atto secondo
Un grottesco tema di Minuetto, falsamente elegante e stilizzato, introduce la scena iniziale dell’atto secondo durante la quale la governante veste in abiti da festa Morosus. Giunge il Barbiere che rassicura l’anziano capitano sul fatto che sta curando i dettagli delle nozze; a tale fine vengono presentate tre fanciulle, tutte attrici della compagnia. Per prima viene presentata Carlotta che finge di essere Katherine, una semplice paesana, dalla quale Morosus non appare particolarmente colpito. Anche Isotta, la seconda fanciulla, che recita la parte di una nobildonna ben educata producendosi in un virtuosistico a solo in Prestissimo (Wie soll ich), non colpisce particolarmente Morosus che, anzi, appare insospettito dalla capacità della donna di suonare il liuto. Infine, Aminta, presentata sotto il falso nome di Timidia, accompagnata, dal discreto timbro dei legni (clarinetto e fagotto) prima e dal clarinetto e dagli archi (viole e violoncelli che si alternano) dopo, desta una certa impressione nell’anziano capitano grazie al suo comportamento pudico che, tuttavia, non le impedisce anche di prodursi in momenti d’intenso lirismo tal da marcare in modo ancor più netto la purezza del personaggio e sembrano alludere al sentimento amoroso senza deformazione comica. Effettuata la scelta, su un tema solenne che grottescamente richiama la celebrazione delle nozze, giungono i due attori Morbio e Vanuzzi, rispettivamente nelle vesti di notaio e prete, per celebrare le finte nozze, delle quali gran cerimoniere è il Barbiere. Nella scena si aprono degli interessanti squarci lirici, come lo splendido sestetto del matrimonio (Wünderbar), nel quale emerge, ancora una volta, la perizia contrappuntistica di Strauss. Alla fine fanno irruzione nella scena contadini e amici di Morosus che, capitanati da Farfallo, un altro commediante che si produce in una brillante canzone di carattere festoso, fanno eccessivo rumore, suscitando l’ira di Morosus che caccia i rumorosi amici i quali nel frattempo hanno dato vita a un coro piuttosto convenzionale.
Rimasto solo con Aminta-Timidia, Morosus cerca di fare, in una scrittura lirica che sembra rappresentare la sincerità del sentimento provato nei confronti della donna, delle prime tenere avances a quella che ritiene sia sua moglie; la donna, dopo aver schivato con un atteggiamento ritroso quegli approcci, esplode in una crisi isterica (Ruhe!) segnalata dagli ottoni e dagli archi in fortissimo che introducono un passo in Prestissimo che rappresenta con grande forza icastica il violento litigio verbale di cui sono protagonisti i due “sposi”. Giunge Henry che promette allo zio di tenere a bada la donna, rivelatasi una vera e propria vipera. Per Morosus non resta che andare a dormire, mentre in orchestra si ode un tema del corno che conduce alla scena conclusiva caratterizzata da un lirico duetto d’amore tra Henry e Aminta (Du süssester Engel); questa situazione stride con la voce assonnata di Morosus, che prima chiama il nipote e alla fine lo ringrazia quasi russando. L’atto si conclude con un incantato ed etereo accordo di re bemolle maggiore.
Atto terzo
Il terzo atto è preceduto da un preludio, formalmente un fugato, il cui soggetto costituisce il materiale musicale della scena iniziale dell’atto unito direttamente al preludio senza soluzione di continuità. Protagonista è Aminta la quale, già la mattina seguente alle nozze, ha preso possesso della casa rendendo la vita del povero Morosus un inferno. Oltre ad aver assunto dei rumorosi operai, ha messo in casa anche un pappagallo dalla voce stridula. Come se non bastasse vengono introdotti un pianista, Farfallo travestito, e un insegnante di canto, che altri non è se non Henry; con loro canta, accompagnata al cembalo, i duetti Sento un certo non so che dell’Incoronazione di Poppea di Monteverdi e Dolce Amor, bendato, alato tratto da Eteocle e Polinice di Legrenzi. Dopo l’esibizione di Aminta la partitura è soggetta a tagli, in quanto si sarebbe dovuto sentire il corno con il tema iniziale del preludio per accompagnare la parte recitata del Barbiere sopraggiunto per procedere alla separazione dei due neosposi. Nell’edizione in ascolto e in genere nella versione abbreviata entrata nel repertorio si passa direttamente alla sesta scena nella quale il Barbiere è accompagnato da un falso giudice, anche in questo caso Vannuzzi travestito, il quale, su un accompagnamento grottescamente solenne con i corni, i fagotti e i tromboni che simulano il timbro di un organo, in modo perentorio afferma che non può essere causa di separazione l’aver sposato una donna che non risponde alle aspettative del marito. Tutto il passo diventa una parodia di un processo di separazione con un linguaggio che fa ricorso a un latino di circostanza utilizzato solo per confondere le idee al povero Morosus. Dal punto di vista drammaturgico la parodia del processo avviene anche con l’alternanza tra recitazione e canto con sottolineature orchestrali secondo una struttura ben sperimentata da Strauss in altri lavori e che richiama il mondo dell’operetta. In questo processo Farfallo funge da avvocato mentre Isotta e Carlotta da testimoni; le due donne, in particolar modo, attestano che Timidia-Aminta avrebbe avuto una relazione prima del matrimonio. Introdotto dal Barbiere, anche Henry, sempre travestito, testimonia di aver avuto una relazione con la donna, alla quale dedica un’aria da perfetto tenore amoroso in una scrittura intrisa di un lirismo liederistico. Nel contratto nuziale non si trova alcun codicillo che renda nullo il matrimonio in presenza di una relazione pregressa da parte della donna, come fa notare il falso avvocato Farfallo in una scrittura ancora una volta grottescamente solenne. Alla fine Morosus, resosi conto dell’impossibilità di separasi dalla moglie, appare avvilito come il lunghissimo si bemolle basso tenuto dai contrabbassi, dalla tuba, dai tromboni e dal controfagotto; proprio da questo si bemolle nasce il tema, prima esitante, del clarinetto del Finale, nel quale Henry svela la burla ai danni di Morosus che, lungi da offendersi, scoppia in una fragorosa risata. Nel Finale, dove, nell’edizione in ascolto sono operati alcuni tagli, si ricompone, dunque, la serenità familiare con Aminta ed Henry che resteranno a vivere per sempre con Morosus il quale si accende la pipa in un quadretto domestico reso da una musica composta e serena come il tema degli archi che caratterizza la scena Finale.
Venezia, Teatro La Fenice: “Pinocchio” di Pierangelo Valtinoni
Venezia, Teatro La Fenice, Lirica e balletto, Stagione 2019-2020
“PINOCCHIO”
Fiaba musicale in due atti liberamente tratta da “Le avventure di Pinocchio” di Carlo Collodi. Libretto di Paolo Madron
Musica Pierangelo Valtinoni
Pinocchio SILVIA FRIGATO
Geppetto OMAR MONTANARI
La fata GIOVANNA DONADINI
Il gatto / dottor Gufo CHIARA BRUNELLO
La volpe / dottor Corvo CHRISTIAN COLLIA
Mangiafuoco / L’oste ROCCO CAVALLUZZI
Lucignolo / Arlecchino LARA LAGNI
Il tonno / La lumaca / Pulcinella ROSA BOVE
Gendarmi, il grillo parlante, conigli, coro di burattini, coro di bambini, coro di pesci PICCOLI CANTORI VENEZIANI
Orchestra del Teatro La Fenice
Piccoli Cantori Veneziani
Direttore Enrico Calesso
Maestro del Coro di voci bianche Diana D’Alessio
Regia Gianmaria Aliverta
Scene Alessia Colosso
Costumi Sara Marcucci
Light designer Elisabetta Campanelli
Movimenti coreografici Silvia Giordano
Ballerini Davide Bellomo, Matilde Cortivo, Eva Dabalà, Samuel Moretti, Ilario Marco Russo, Nik Simonetti
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice
Venezia, 19 dicembre 2019
“C’era una volta un pezzo di legno”. L’incipit del più celebre tra i capisaldi della letteratura infantile campeggia, in bella calligrafia, insieme ad altre citazioni, su una delle due quinte verdi, che incorniciano il boccascena, mentre La fata introduce la storia del burattino più famoso del mondo e Il grillo parlante – cui presta la voce il Coro di voci bianche – esordisce con un allegro “Cri. Cri. Cri.”, nel descrivere il buon Geppetto intento a dar forma al suo Pinocchio, e Il gatto e La volpe e Lucignolo già si presentano, confessando le loro poco nobili inclinazioni. Tutto questo si vede e si sente nel Prologo dell’opera Pinocchio di Pierangelo Valtinoni, su libretto di Paolo Madron, prima che inizi la favola vera e propria, nell’allestimento ideato da Gianmaria Aliverta, coadiuvato da Alessia Colosso (scene), Sara Marcucci (costumi), Elisabetta Campanelli (luci), Silvia Giordano (movimenti coreografici). Una prima versione dell’opera risale al 2001: un atto unico destinato ad essere suonato e cantato, in larga parte, da bambini e ragazzi, che vide la luce al Teatro Olimpico di Vicenza, ottenendo tale successo, da indurre la casa editrice inglese Boosey & Hawkes a commissionare agli autori una versione ampliata della partitura – risultante in due atti con esecutori esclusivamente professionisti –, che venne rappresentata in tedesco per tre stagioni consecutive, dal 2006 al 2008 (e poi ripresa nel 2011) alla Komische Oper di Berlino. Dalle sponde della Sprea il nuovo Pinocchio di Valtinoni e Madron è approdato ad altre prestigiose rive, quali Amburgo, Lipsia, Monaco, Torino. Ed ora è sbarcato in laguna. Già Croce riteneva che il romanzo di Collodi piacesse non solo ai piccoli, ma anche agli adulti.
Un’opinione evidentemente condivisa anche dal compositore vicentino che, insieme al librettista, vi individua la presenza, tipica nelle fiabe, di due livelli di lettura: il primo è alla portata di ogni bambino, l’altro, più complesso, riguarda una tematica esistenziale – e letteraria – particolarmente importante come quella legata alla figura paterna. Il punto centrale del Pinocchio valtinoniano è rappresentato, infatti, dalla ricerca del padre: una tematica, che è alla base anche di due opere successive dello stesso autore – La Regina delle nevi e Il Mago di Oz – dando origine ad una “Trilogia della ricerca”. La partitura realizzata per Berlino mantiene intatte la freschezza e l’attitudine della prima versione a coinvolgere i ragazzi. L’organico – un po’ più nutrito di un ensemble da camera, soprattutto per la sua ricchezza di strumenti a percussione – è finalizzato a un raffinato utilizzo dei colori orchestrali come il colore del pianoforte, per indicare la fata, oppure quello dei fiati per Il grillo parlante.
Vi sono chiari riferimenti al sistema tonale, in una sintesi tra vari elementi: dal classico, al pop, al rock, a certi ritmi ricorrenti nel repertorio del Novecento, come la marcia di Mangiafuoco o il ragtime del Gatto e la Volpe o ancora il samba della seconda scena del primo atto, con Pinocchio, Geppetto e il grillo parlante.
Sul versante registico, Gianmaria Aliverta – che mette in scena per la Fenice Pinocchio dopo le fortunate regie di Mirandolina e Un ballo in maschera –, ambienta l’azione negli Anni Quaranta del secolo scorso – un’epoca in cui i nonni ancora raccontavano le fiabe –, aggiungendo, peraltro, alcuni elementi riferibili alla contemporaneità, come a suggerire che la storia del burattino vivente è senza tempo. La narrazione asseconda la musica, procedendo spesso per scene tra loro isolate come le puntate di una miniserie di Netflix. Affinché tutto risulti chiaro, il palcoscenico è diviso in due. In alto sta il mondo reale – una scuola, dove la fata/maestra fa leggere ai suoi ragazzi Le avventure di Pinocchio –, in basso è il regno della fantasia, dove si materializza l’immaginazione di quegli scolari, che peraltro, in alcuni momenti, scendono nel mondo fantastico, incarnando alcuni personaggi: gli aiutanti della fata, gli asinelli, i pesci. Ne risulta uno spettacolo di semplice fruizione, ma anche intrigante e divertente, a patto di assecondare – come direbbe Pascoli – il Fanciullino, che è in noi. Fantasiosi e colorati i costumi e le scene, eleganti le movenze coreografiche, bravissimi i bambini impegnati in palcoscenico, tra cui – ineccepibili nelle loro prestazioni canore, a delineare uno stuolo di personaggi animaleschi ed umani – i Piccoli Cantori Veneziani, che hanno saputo tener testa ai cantanti professionisti. Quanto a questi ultimi, Silvia Frigato è risultata un Pinocchio vocalmente garbato ed espressivo, spigliato nel fraseggio come nel gesto scenico. Improntata a dolcezza, ma anche a una pacata fermezza è apparsa la Fata, elegante nella vocalità, di Giovanna Donadini.
Omar Montanari (Geppetto) ha sfoggiato una voce dal bel timbro virilmente brunito, forse un po’ in contrasto con la disarmante rassegnazione del personaggio. Molto validi anche Rocco Cavalluzzi (un Mangiafuoco più divertente che pauroso / L’oste), Chiara Brunello (Il gatto / dottor Gufo), Christian Collia (La volpe / dottor Corvo), Lara Lagni (Lucignolo / Arlecchino), Rosa Bove (Il tonno / La lumaca / Pulcinella). Perfettamente in sintonia con le intenzioni del compositore è risultata la direzione di Enrico Calesso, che ha saputo ottenere dagli agguerritissimi strumentisti dell’Orchestra della Fenice la necessaria, diffusa brillantezza dei colori, come preziosi squarci dalle sfumature delicate, oltre a una rigorosa estroversione nel rendere i molteplici ritmi ricorrenti in partitura. Successo pieno e caloroso. Foto Michele Crosera
Jules Massenet (1842-1912): “La vie d’une rose”, “Les amoureuses sont des folles” , “Ivre d’amour”
“La vie d’une rose”: Songs by Jules Massenet: Sérénade d’automne; Passionnément; L’heure solitaire; Nuit d’Espagne; Souhait; La mélodie des baisers; Rien ne passe!; 4 Mélodies, Op. 12: No. 3. La vie d’une rose; Le poète et le fantôme; Poëme d’amour: No. 4. Puisqu’elle a pris ma vie; Dieu créa le désert; Expressions lyriques: No. 5. La dernière lettre de Werther à Charlotte; Le sais-tu?; La dernière chanson; Aux étoiles; Chanson pour elle; Etre aimé; Salut; Printemps!; Le coffret d’ébène; Poème d’avril, Op. 14: No. 5. Vous aimerez demain; Joie; L’ame des fleurs; Les fleurs; Le petit Jesus; Amoureux appel. Sally Silver (soprano). Christine Tocci (mezzosoprano). Richard Bonynge (pianoforte). Ultima incisione realizzata dal soprano Sally Silver prima della sua morte all’età di 51 anno. Registrazione: Londra, National Opera Studio 4-7 aprile, 2017. T. Time: 71′ 41″ 1 CD SOMM RECORDINGS 2019 SOMMCD 0600.
La produzione vocale da camera di Jules Massenet con le sue 250 composizioni circa è certamente una delle più vaste se non la più vasta in assoluto nel panorama musicale francese del periodo. Direttamente legata alla produzione operistica soggetta ad arrangiamenti e a riduzioni per canto e pianoforte anche a quattro mani, la produzione vocale da camera costituisce un completamento di quella e soprattutto risponde a una domanda sempre crescente da parte della borghesia dell’epoca che la utilizzava come mezzo di intrattenimento. La musica di Massenet, del resto, pur trovando un suo sfogo naturale negli ampi palcoscenici dei teatri, si prestava bene anche al più ristretto ambito sia per le tematiche, dall’amore alla donna, dalle stagioni ai bozzetti pastorali, dal romanticismo al simbolismo, sia per gli autori, tra i quali grandi poeti e scrittori, come Silvestre, Verlaine, De Musset, Gautier, Rostand, Hugo, Maupassant e Anatole France per non citare che i più famosi.
Alla conoscenza di questo enorme repertorio hanno contribuito con tre eccellenti album il soprano Sally Silver e il grande direttore d’orchestra Richard Bonynge al pianoforte. Prodotto da Jeremy Silver, marito del soprano, il Cd La vie d’une rose, il cui titolo non solo ricalca quello di una lirica di Massenet, ma anche allude in modo emblematico alla triste vicenda umana della Silver, prematuramente scomparsa all’età di 51 anni a causa di un cancro, è quasi un vero e proprio testamento musicale dell’artista, essendo questa la sua ultima incisione prima della morte. In questo Cd la Silver, in sei brani, duetta con Christine Tocci con la quale mostra un’intesa perfetta in brani quali L’heure solitaire o Aux étoiles, dove le due voci, nei passi in scrittura omoritmica, si integrano in modo totale quasi a dare l’impressione di ascoltare una sola persona. Negli altri brani la Silver, dotata di una voce particolarmente omogenea con un bel settore centrale, si mostra raffinata interprete per l’attenzione al testo, alle dinamiche e per una grande varietà di colori. Tra le sue interpretazioni si segnalano l’incantevole Rien ne passe! e il drammatico Dieu créa le désert, mentre la Tocci, anche lei dotata di una voce abbastanza omogenea dal timbro forse un po’ troppo chiaro per un mezzosoprano, nella famosa Dernière lettre de Werther à Charlotte, mostra le sue doti intepretative esibendo anche una recitazione ritmica particolarmente espressiva. Richard Bonynge accompagna questo repertorio con grande gusto e sensibilità trovando sonorità incantevoli come accade nell’evocativo tema di Claire de Lune della Dernière lettre de Werther à Charlotte o nello scorrevole disegno di Aux étoiles.
“Les amoureuses sont des folles”: Les amoureuses sont des folles; Si vous vouliez bien me le dire; À Mignonne; Beaux yeux que j’aime; La chanson du ruisseau; Dialogue nocturne; Adieu!; Je t’aime!; Oiseau des bois; Sainte Thérèse prie; Horace et Lydie; Coupe d’ivresse; Tout passe!; On dit!; O ruisseau; Départ; Oh! ne finis jamais; Le temps et l’amour; Dans le sentier, parmi les roses; Amoureuse; Les yeux clos; Les extases; Éternité; Menteuse chérie. Sally Silver (soprano). Christine Tocci (mezzosoprano). Nico Darmanin (tenore). Gabriella Swallow (violoncello). Registrazione: Londra, Blackburn Hall, National Opera Studio, 14, 15, 16 aprile 2014. T. Time: 58′ 53″ 1 CD 2015 SOMM RECORDINGS SOMMCD 0151
Nel Cd Les amoureuses sont des folles, pubblicato nel 2015, sono proposti altri 24 brani interpretati insieme alla Silver e alla Tocci, anche dal tenore Nico Darmanin e dalla violoncellista Gabriella Swallow. Dotato di una voce abbastanza omogenea e dal timbro chiaro con acuti squillanti e buoni centri, Darmanin esibisce un’intonazione e un fraseggio curati sia nei duetti con la Silver (Dialogue nocturne e Horace et Lydie, dove si nota una perfetta intesa tra i due artisti nell’incantevole finale) sia in quello con la Tocci (Le temps et l’amour) sia nel terzetto (O ruisseau, nel quale, tra l’altro, Bonynge trova un tocco leggerissimo per lo scorrevole disegno che rende benissimo lo scorrere delle acque del ruscello) insieme con la Tocci e la Silver che, cantando omoritmicamente, danno, come era accaduto del Cd precedentemente recensito, l’impressione di essere un’unica persona. Protagonista dei brani, Je t’aime e Les yeux clos, la Swallow dà letteralmente voce al suo violoncello grazie a una cavata che trova accenti malinconici e di intenso lirismo. Inutile ritornare qui sulle doti di raffinati interpreti della Silver e di Bonynge pienamente confermate anche in questo bel Cd.
“Ivre d’amour”: Ivre d’amour; C’est l’amour; Ma petite mère a pleuré; Sérénade de Zanetto; Il pleuvait; Si tu l’oses; Elegie; En même temps que ton amour; Quand nous nous sommes vus pour la première fois; Jamais un tel bonheur; Poème d’avril; Ave Maria; Guitare; Première danse; La verdadera vida; Amours bénis; Chanson andalouse; Avril est amoureux; Enchantement!; Quand on aime; Sonnet; Pensée de printemps; À deux pleurer; Chanson désespérée; Soir de rêve; Avec toi!; Poème pastoral: No. 5. La Crépuscule; Jamais plus! Sally Silver (soprano). Richard Bonynge (pianoforte). Gabriella Swallow (violoncello). Registrazione: Potton Hall, Suffolk, 9-11 marzo 2012. T. Time: 63′ 51″ 1 CD GUILD MUSIC 2012 GMCD7393
I due artisti sono, infine, protagonisti anche del Cd Ivre d’amour che, pubblicato nel 2012, contiene ben 28 titoli di Massenet, anche questi di rara bellezza, come quelli proposti negli altri due album. In quest’ultimo, interamente cantato dalla Silver, oltre alle doti vocali già evidenziate negli altri due, si nota nella voce una freschezza giovanile che giova anche a livello interpretativo. I brani sono interpretati con gusto e con un notevole bagaglio tecnico: bellissimo il filato che conclude Si tu l’oses, come struggente appare la sua interpretazione di Elegie, nella quale interviene con il suo violoncello Gabriella Swallow, protagonista anche in Amours Bènis, con gusto e sensibilità a livello espressivo.
Si tratta, in definitiva, di tre album molto curati che riportano alla luce la raffinatissima produzione di liriche da camera di Massenet, un meraviglioso scrigno dove sono custoditi autentici gioielli.
Teatro Pergolesi di Jesi: “Carmen”
Jesi, Teatro G.B. Pergolesi, Stagione 2019
“CARMEN”
Opéra-comique in quattro atti (in lingua originale francese) , libretto di Henri Meilhac e Ludovic Halévy, dalla novella omonima di Prosper Mérimée. Versione con i dialoghi originali e con alcuni dialoghi modificati (a cura di Opéra-Théatre de Metz Métropole).Edizione Alkor Barenreiter
Musica di Georges Bizet
Carmen MIREILLE LEBEL
Micaela ANNA BORDIGNON
Frasquita MARGHERITA HIBEL
Mercédès MARTINA RINALDI
Don Josè ENRICO CASARI
Escamillo SERGIO FORESTI
Dancairo TOMMASO CARAMIA
Remendado VASSILY SOLODKYY
Zuniga ANDREA TABILI
Moralès GIACOMO MEDICI
Lilias Pastia (ruolo parlato) FRANCESCO MATTIONI
Orchestra Filarmonica Marchigiana, Coro del Teatro della Fortuna di Fano, Pueri cantores “D.Zamberletti” di Macerata
Direttore Beatrice Venezi
Maestro del coro Mirca Rosciani
Maestro del coro di voci bianche Gian Luca Paolucci
Regia Paul-Emile Fourny
Scene Benito Leonori
Costumi Giovanna Fiorentini
Luci Patrick Méeus
Nuova produzione in collaborazione con Opéra-Théatre de Melz Métropole, Opéra de Massy, Opéra de Reims at Centre Lyrique Clermon Auvergne, Fondazione Rete Lirica delle Marche.
Jesi, 22 dicembre 2019
Si conclude la cinquantaduesima stagione lirica di tradizione con un’opera importante, che viene riproposta nella versione originali con i dialoghi (alcuni riscritti): Carmen. Un nuovo allestimento firmato da Paul-Emile Fourny, che ci propone una lettura desueta, ma interessante, dell’opera di Bizet. Lo stesso regista parla di una lettura più contemporanea, ma rispettosa dell’opera, evitando gli stereoti “esotici” per sviluppare al meglio la drammaturgia. Ne esce una protagonista decisamente femminista, che combatte per essere riconosciuta come donna libera e rivendicare questo status, come hanno fatto nel corso della storia. L’atmosfera scenica è quella di un noir televisivo ambientato tra gli anni 50′ r 60′. In fondo la Carmen è la storia di un crimine, quindi l’azione scenica inizia con la scoperta di due corpi davanti ad un teatro, dove una compagnia sta allestendo l’opera di Bizet, uno di questi è proprio quello di Carmen. È l’inizio di un flashback che porterà a scoprire che l’autore dell’omicidio è Don Josè, l’ispettore di polizia. Un’ambientazione contemporanea che, come già fatto cenno, bandisce, sia nelle scene di Benito Leonori e nei costumi di Giovanna Fiorentini a una Spagna di maniera. In linea con l’allestimento le luci di Patrick Mèeusi, che si tingono di un bellissimo blu notturno sul finale. Dal punto di vista musicale abbiamo trovato un’orchestra filarmonica marchigiana in ottima forma, merito della direzione di Beatrice Venezi che ci ha dato una concertazione attenta a tutti i colori della partitura e al giusto equilibrio tra buca e palcoscenico. Omegeno e potente il Coro del Teatro della Fortuna di Fano, sotto la direzione di Mirca Rosciani. Valido l’apporto dei Pueri Cantores “D. Zamberletti” di Macerata, preparati dal maestro Gian Luca Paolucci.
Successo personale per la Carmen di Mireille Lebel. Voce di bel timbro mezzosopranile, solida e omogena, con il fraseggio accurato, ha dato al personaggio forse un tono meno seducente, ma più malizioso e irriverente. Vocalmente corretta la Micaela di Anna Bordignon alla quale forse è mancato un tocco di delicatezza in più. Elemento che riteniano congenito a questo personaggio. Sanguigno e virile il Don Josè di Enrico Casari. A tale partecipazione interpretative non corrisponde sempre la linea di canto, qua e la faticosa e poco controllata in acuto. Una prova comunque ricca di pathos nella recitazione. Non sempre a fuoco vocalmente l’Escamillo di Sergio Foresti nonostante la spavalderia e sicurezza scenica.
Valide le prove di Margherita Hibel e Martina Rinaldi, rispettivamente Frasquita e Mercédès. Una bella prova di canto e recitazione, considerando che sono cantanti del corso di formazione professionale per cantante lirico solista del progetto Sipario Bis Bis. I due contrabbandieri Dancairo e Remendado interpretati da Tommaso Caramia e Vassily Solodkyy ci sono sembrati molto credibili ed efficaci. Così come il sicuro Morales di Giacomo Medici e il persuasivo Zuniga di Andrea Tabili. Completava il cast Francesco Mattioni nei panni dell’oste Lilias Pastia Grande successo a fine recita, con generosi applausi a tutto il cast, per un teatro tutto esaurito.Non ci resta che attendere i prossimi mesi, per scoprire quali saranno i titoli della Stagione 2020.
Venezia, Teatro La Fenice: la Quarta e la Quinta sinfonia di Mendelssonh secondo Claus Peter Flor
Venezia, Teatro La Fenice, Stagione Sinfonica 2019-2020
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Claus Peter Flor
Felix Mendelssohn Bartoldy: Sinfonia n. 4 in la maggiore op. 90 “Italiana”; Sinfonia n. 5 in re maggiore op. 107 “Riforma”
Venezia, 20 dicembre 2019
Protagonista del sesto appuntamento della Stagione Sinfonica 2019-2020 del Teatro La Fenice era il maestro Claus Peter Flor, originario di Lipsia, attualmente direttore musicale dell’Orchestra Sinfonica “Giuseppe Verdi” di Milano, per la prima volta sul podio dell’orchestra del teatro veneziano a dirigere due grandi pagine sinfoniche di Felix Mendelssohn Bartholdy: la Sinfonia n. 4 in la maggiore op. 90 “Italiana” e la Sinfonia n. 5 in re maggiore op. 107 “Riforma”.
L’ispirazione della Sinfonia Italiana nacque dal “viaggio in Italia” – all’epoca, fondamentale esperienza formativa per i rampolli della buona società –, che il compositore compì intorno al 1830. L’opera fu presentata a Londra, sotto la direzione dello stesso autore, il 13 maggio 1833, ma venne rielaborata più volte, tanto che la versione definitiva fu eseguita per la prima volta solo nel 1849, due anni dopo la morte di Mendelssohn, a Lipsia. Strutturata in quattro tempi, rispecchia, nella gioiosa leggerezza dei movimenti estremi, il richiamo al Bel Paese, contenuto nel titolo. Temi e ritmi popolari vengono interpretati con grande libertà, mentre l’orchestrazione, di impronta francese, mette in valore, senza indulgere in impasti sonori, il puro timbro delle singole famiglie strumentali.
Poco prima dell’Italiana, fra il settembre del 1829 e l’estate del 1830, Mendelssohn aveva composto quella che compare nel catalogo come Quinta Sinfonia in re maggiore op. 107 – poiché pubblicata solo nel 1868, nonostante sia stata scritta dopo la prima –, denominata “Riforma”, trattandosi di una partitura realizzata in occasione del trecentesimo anniversario della Confessione di Augusta, il documento dottrinale redatto da Filippo Melantone per la Dieta di Augusta, nel vano tentativo di ristabilire la comunione con la Chiesa cattolica, che finì per costituire la professione di fede del luteranesimo. Il lavoro ha un carattere severo, sacrale, profondamente religioso: vi si distingue chiaramente la citazione dell’“Amen di Dresda” – tipica formula responsoriale luterana, formata da una sequenza di sei note, che fu poi utilizzata anche da Wagner per il motivo del Graal nel Parsifal –, oltre a quella del corale “Ein feste Burg ist unser Gott” (Una solida fortezza è il nostro Dio).
Esemplari, raffinate, puro godimento per le orecchie ed il cuore si sono rivelate le scelte interpretative di Claus Peter Flor che, con gesto mai eccessivo ma efficacissimo, ha saputo coniugare i toni più lievi ed essenziali a slanci di intensa espressività, sostenuto da un’orchestra docile e sensibile, vigorosa e scattante, morbida e delicata.
Deciso l’attacco del primo movimento della Sinfonia Italiana, Allegro vivace, con un tema, cui la partenza in levare conferisce particolare slancio, dopodiché archi e fiati hanno brillato nel loro dialogo dal ritmo serrato, dando vita a un discorso musicale – in cui si ha la successiva comparsa di una seconda idea tematica e poi insolitamente, nello sviluppo, di una terza, in un efficace gioco contrappuntistico – particolarmente nitido e animato, fino all’estesa coda. Un’atmosfera raccolta e pensosa ha dominato nell’Andante con moto, basato su una nobile melodia, triste e lenta – un canto processionale dal vago sapore modale, sostenuto da un incessante procedere degli archi –, interrotta qua e là da un secondo motivo più aperto e cantabile, che lentamente si spegne. Vago e scorrevole il tema che apre il terzo movimento, Con moto moderato, una melodia fluida e cantabile, che viene ripetuta, con qualche leggera variazione dopo il Trio – dove si sono segnalati, nel loro ritmico intervento, corni e fagotti – creando un interessante effetto di dialogo tra i due nuclei tematici. Particolarmente brillante l’ultimo movimento, Saltarello: Presto – fondato sull’alternanza e sulla sovrapposizione del ritmo a terzine e di quello binario –, un esplicito omaggio alla terra italiana, in una sfolgorante evocazione di suoni e di colori, attraverso questa vorticosa danza popolare. Nitido e pieno di verve l’intervento dei flauti, che intonano il motivo iniziale, dal ritmo incalzante.
Al “romanticismo felice” di cui è in qualche modo espressione la Sinfonia Italiana ha fatto seguito il carattere diffusamente severo e misticheggiante della Sinfonia Riforma. Anche qui si sono apprezzate le scelte interpretative di Flor, sempre adeguatamente assecondato dall’orchestra. Un tono di mistico fervore ha dominato nell’Andante, che introduce il primo movimento, basato sul solenne ritmo puntato del corale “Ein’ feste Burg ist unser Gott”, poi oggetto di un’elaborazione, che gli conferisce i toni di un’appassionata predicazione, cui contrasta la citazione del soave Amen di Dresda – altamente suggestivo per il tempo particolarmente lento scandito da Flor e l’incantevole, tenue sonorità resa dagli archi –, che Mendelssohn, convertitosi al protestantesimo, seguendo l’esempio del padre Abraham – sentiva durante le funzioni. Un clima di gioia paesana si è creato con il secondo movimento, Allegro vivace: uno Scherzo, la cui prima parte, poi ripresa dopo il Trio, è caratterizzata da un ritmo puntato, ricordando vagamente una danza popolare, mentre il tema del Trio è un canto dolce e consolatorio eseguito da due oboi, procedendo per terze, in un modo tipico della musica popolare. Gli archi si sono messi in luce nel successivo Andante, che ha la funzione di introdurre il quarto movimento, intonando con estrema grazia la melodia intima e raccolta, che è loro affidata quasi esclusivamente, con l’eccezione di due soli sommessi interventi di flauto e fagotto, cui nelle ultime battute si aggiungono anche clarinetti, corni, trombe e timpani prima del suggello finale affidato ancora ai soli archi. Di struggente misticismo è risultato l’ultimo movimento, Andante con moto. Allegro Maestoso – dove hanno brillato tutte le sezioni dell’orchestra, guidata con mano ferma, in particolare, negli stupendi passaggi contrappuntistici –, costituito da una serie di variazioni sul corale “Ein’ feste Burg ist unser Gott!”, e dalla ripresa dell’Amen di Dresda. È il flauto ad intonare il corale; poi, ad armonizzarlo, si vi si uniscono i legni, e poi ancora gli archi, finché dopo la sua presentazione in stile organistico, non prende vita la sua elaborazione sinfonica, gioiosa affermazione di fede in quel Dio, che è salda fortezza. Scroscianti applausi da parte di un pubblico entusiasta.
Novara, Teatro C. Coccia: “Cendrillon” di Pauline Viardot
Novara, Teatro Carlo Coccia, stagione d’opera 2019/2020
“CENDRILLON”
Opérette da salon in tre atti su libretto di Pauline Viardot
Musica di Pauline Viardot nell’elaborazione musicale e orchestrazione di Paola Magnanini
Le Baron de Pictordu PASQUALE GRECO
Marie, detta Cendrillon FRANCESCA MARTINI
Armelinde SIMONA DI CAPUA
Maguelonne ILARIA ALIDA QUILICO
La Fée RAFFAELLA DI CAPRIO
Le Prince Charmant GIANLUCA MORO
Le Comte Barigoule DARIO SEBASTIANO POMETTI
Elementi dell’Orchestra del Luglio Musicale Trapanese
Direttore Michelangelo Rossi
Regia Teresa Gargano
Costumi e scene Danilo Coppola
Luci Ivan Pastrovicchio
Novara, 21 dicembre 2019
In questi anni il Teatro Carlo Coccia di Novara ci ha abituati a proporre – al fianco della programmazione più consueta – qualche titolo più originale e di raro ascolto, anche se il pubblico non sembri rispondere a queste meritorie iniziative. Quest’anno è il turno della rarissima “Cendrillon” di Pauline Viardot con la quale il teatro novarese sembra porgere i propri auguri per le imminenti festività.
L’Opérette da salon della compositrice francese è un lavoro quanto mai interessante e significativo di come venisse vissuta la musica negli ambienti colti del XIX secolo. Lavoro pensato per un’esecuzione privata con accompagnamento del solo pianoforte – anche se molti tratti della scrittura pianistica della Viardot lasciano trasparire anche l’idea di una possibile versione orchestrale – ma non per questo privo di qualità. Composto dalla Viardot nell’ultima fase della sua vita ed eseguito la prima volta nel 1904 – anche la composizione va forse riportata agli anni precedenti – il lavoro è una sorta di summa della cultura musicale che la Viardot aveva accumulato nei lunghi anni trascorsi prima sul palcoscenico e poi come grande animatrice della vita musicale parigina. Sul libretto – che riprende sostanzialmente lo schema della versione rossiniana integrandola però con gli elementi magici dell’originale di Perrault – si dipana una sorta di evocazione della storia musicale francese e non solo del XIX secolo. Se Rossini resta sempre presente sullo sfondo ed emerge come diretto modello in alcuni passaggi fondamentali – dalla scena iniziale con la canzone di Cenerentola fin nel testo modellata su quella rossiniana, al duetto iniziale del III atto tra il Barone e Barigoule (in cui più che esplicito è il ricordo di “Un segreto d’importanza”) – l’opera integra le suggestioni più varie con echi da Gounod a Saint-Saens, Offenbach fino ad autentiche citazioni testuali come il “Libestraum” di Liszt che diventa la canzone di Cendrillon nella festa del II atto. Tutto ciò non diventa inutilmente erudito, ma mostra sempre freschezza e spontaneità che attraversa tutta l’opera e che riscatta l’ecclettismo di fondo a cui si unisce un velo di languida malinconia, come se l’anziana musicista omaggiasse i tanti amici che l’avevano accompagnata nella sua lunga e intensa vita.
In occasione dell’esecuzione novarese è stata realizzata una versione per orchestra da camera di nove elementi preparata dalla giovane compositrice Paola Magnanini, allieva dell’Accademia AMO del Teatro Coccia, che elabora con gusto e senso stilistico le suggestioni della scrittura dalla Viardot trovando un giusto equilibrio tra antico e moderno. Un adattamento rispettoso dello stile e dello spirito dell’opera rendendola forse più adatta a un’esecuzione teatrale.Lo spettacolo, più che una ripresa, è una rielaborazione radicale di quello proposto al Luglio musicale trapanese. Le necessità di passare dalla versione originale pianistica all nuovo adattamento orchestrale, le radicali differenze sceniche, la diversità di collocazione hanno portato a una totale revisione dello spettacolo. Artefice della nuova versione registica: Teresa Gargano. Il risultato è uno spettacolo elegante e ben guidato. La registra segue in modo fedele la vicenda, non ci sono interventi spiazzanti o stravolgimenti, la fiaba è raccontata in modo tradizionale con la giusta dose di leggerezza e un pizzico di magia. L’impianto scenico e i costumi di Danilo Coppola rispondono alla medesima logica di stilizzata tradizione. Scene essenziali, agili – evidentemente pensate per favorirne una circolazione – formate da un grande arco centrale – che può aprirsi a mostrare gli ambienti retrostanti – e da due finestre laterali. Lo stile è grafico, tutto giocato su bianco, nero e toni di grigio, come in una sorta di libro ottocentesco animato come per magia. Le stesse scelte cromatiche caratterizzano i costumi, molto belli e di gusto settecentesco, più sobri per i personaggi seri, giustamente parodistici per le sorellastre e di un rococò immaginifico per la fata.
Michelangelo Rossi guida con buona mano, sicura e precisa i volonterosi solisti dell’Orchestra del Luglio musicale trapanese in cui purtroppo l’entusiasmo non è sempre pari ai risultati. Certo l’orchestrazione della Magnanini, di fatto impostata su un piccolo numero di prime parti ben in vista, è insidiosa. In più punti si sono sentite imprecisioni forse attribuibili anche all’esiguo numero di prove.
Francesca Martini (Marie/Cendrillon) di Cenerentola ha il physique du role. Bionda, graziosa, delicata nel gesto, la perfetta incarnazione dell’idea che tutti abbiamo del personaggio. La voce è di soprano lirico tenente al leggero e ben si adatta alla scrittura del ruolo. Il colore è piacevole e la linea di canto precisa e musicale. Sul piano interpretativo riesce a dare un po’ di carattere a un personaggio molto più passivo della sua omologa rossiniana e in cui i moti di rivolta tendono a concentrarsi nell’ironia con cui deforma la storia del principe in cerca di una sposa. Raffella di Caprio è forse l’elemento più interessante sul piano vocale. La parte della Fata è breve ma decisamente impegnativa, la tessitura molto acuta e un canto scopertamente virtuosistico. La di Caprio si mostra all’altezza del ruolo: agile nei passaggi di bravura e squillante in acuto, ma anche corposa.
Funzionali le due sorellastre. Nell’insieme meglio Ilaria Alida Quilico (Maguelonne) sicura e precisa nell’aria del II atto mentre pur corretta nell’insieme Simona di Capua (Armelinde) risulta debole nel settore grave durante la canzone spagnoleggiante della festa.
Gianluca Moro è un Prince Charmant liricamente languoroso, timbro piacevole, buona linea di canto, accento forse un po’ monocorde ma il ruolo non offre moltissimo al riguardo, in fondo i principi delle favole non sono mai personaggi troppo caratterizzati. Canta però con gusto ed eleganza e la prova è convincente. Interpretativamente più brillante Dario Sebastiano Pometti nei panni del Conte Barigoule, di fatto il corrispettivo del Dandini rossiniano. Il cantante è molto giovane, dispone di buona tecnica e di un materiale interessante e una notevole verve tanto nell’esibita pomposità da falso principe che nel raffinato gioco dialettico del duetto con il Barone. Quest’ultimo affidato a Pasquale Greco è forse l’elemento più debole della produzione. Presenza scenica e il timbro sono troppo giovanili per una figura paterna. L’emissione suona un po’ nasale e compromette ulteriormente la riuscita del personaggio, specie nei momenti solistici. Sul piano teatrale appare più convinto nel duetto del III atto.
Serata nel complesso più che godibile ed è triste attestare la scarsissima partecipazione di pubblico per una produzione che avrebbe meritato ben maggiore interesse.
Teatro Regio di Torino: “Carmen” (cast alternativo)
Teatro Regio di Torino, stagione lirica 2019 /2010
“CARMEN”
Opéra-comique in quattro atti su libretto di Henri Meilhac e Ludovic Halévy, dall’omonima novella di Prosper Mérimée.
Musica di Georges Bizet
Carmen MARTINA BELLI
Don José PETER BERGER
Micaëla GIULIANA GIANFALDONI
Escamillo ANDREI KYMACH
Frasquita SARAH BARATTA
Mercédès ALESSANDRA DELLA CROCE
Il Dancaïre GABRIEL ALEXANDER WERNICK
Il Remendado CRISTIANO OLIVIERI
Moralès COSTANTINO FINUCCI
Zuniga GIANLUCA BREDA
Lillas Pastia ALDO DOVO
Andrès MARCELLO SPINETTA
Una guida GIULIO CAVALLINI
Orchestra e Coro del Teatro Regio
Coro di voci bianche del Teatro Regio e del Conservatorio “G. Verdi”
Direttore Giacomo Sagripanti
Maestro del Coro Andrea Secchi
Maestro del Coro di voci bianche Claudio Fenoglio
Regia Stephen Medcalf
Scene e costumi Jamie Vartan
Coreografia Maxine Braham
Luci Simon Corder riprese da John Bishop
Allestimento Teatro Lirico di Cagliari
Torino, 19 dicembre 2019
Il cast alternativo della produzione di Carmen andata in scena al Teatro Regio di Torino (si veda la recensione al cast principale firmata dal collega Giordano Cavagnino) ha visto come protagonista il mezzosoprano Martina Belli, voce belcantistica raffinata e portamento elegante, figura alquanto distante da ciò che si è soliti immaginare come femme fatale. La sua interpretazione, fondata su un pregevole registro centrale e un espressivo accento drammatico nelle regioni acute, è risaltata negli ultimi due atti e in specie nella scena finale, anche grazie a un accorto lavoro di fraseggio. Nei primi atti la figura di Carmen, per essere delineata nella sua natura di avvincente seduttrice, si gioverebbe di un maggior peso nel registro grave e di uno spettro più ampio di risonanze carnali. La Micaëla di Giuliana Gianfaldoni dispone di uno strumento di dimensione contenuta, ma preciso nelle note acute e incisivo nei passaggi forti, che caratterizza con appropriatezza una ragazza ricca di modestia e al contempo di grande determinazione. Il tenore Peter Berger ha interpretato Don José con qualche difficoltà, a causa di una pronuncia francese imbarazzante e uno strumento povero di armonici, che si traducono in una certa insicurezza; nel corso della recita la resa del personaggio migliora, fino a giungere a risultati discreti nel duetto finale, sia grazie a un maggiore controllo dell’emissione, sia per una più realistica coincidenza tra la vocalità dell’interprete e la condizione interiore lacerata di José.
Assai più seducente è risultato il torero Escamillo, affidato al baritono Andrei Kymach, che si propone come figura elegante, più dandy che uomo di corrida, con la nonchalance incarnata dalla sua voce rotonda e carezzevole. Gli altri interpreti, comuni al cast principale, si sono disimpegnati con proprietà di linguaggio nelle dimensioni dei ruoli assegnati, ed egregiamente si sono esibite le compagini del Teatro, in particolare il Coro che, nelle sue varie sezioni, trova in questa partitura un impegno considerevole.
Circa le scelte esecutive, si è apprezzata la decisione di riaprire ampie pagine di dialoghi parlati, spesso omessi, che rivelano dettagli drammaturgici solitamente dimenticati ma assai rilevanti al fine di comprendere lo sviluppo della vicenda: valga l’esempio di quando Carmen, attendendo José da Lillas Pastia, lo qualifica come stupido, chiarendo come la sua attrazione per lui non si fondi, fin dal principio, sul rispetto della persona amata, e l’opera di seduzione operata dalla donna sia fondamentalmente da lei vissuta come un gioco. Peccato che non siano state reintegrate la pantomina del I atto e la seconda parte del duetto tra il brigadiere e il torero. I tempi, più lenti del consueto, staccati dal direttore Giacomo Sagripanti, associati alle caratteristiche vocali degli interpreti, hanno dato vita a un’esecuzione dell’opéra-comique composta, misurata, a tratti elegante, ma lontana da quel vitalismo mediterraneo travolgente che sedusse Nietzsche e lo allontanò dal teatro wagneriano.
” SuMemArt – La Memoria dell’Arte” del fotografo Luigi Bilancio
“SuMemArt” è la Memoria dell’Arte, l’idea progettuale del fotografo Luigi Bilancio. Rappresentare l’arte nell’arte, le linee estetiche della danza immerse nella maestosità della storia dell’arte campana, al fine di creare maggiore consapevolezza e sensibilità verso i nostri patrimoni materiali e immateriali. Usare la danza come linguaggio di comunicazione e raccontare, attraverso la costruzione di immagini composite, la grande cultura campana ricca di storia non sempre conosciuta, se non addirittura dimenticata da molti. L’idea fotografica è sollecitare interesse e curiosità per la memoria dell’arte e della storia. Protagonisti sono i corpi dei danzatori del Teatro di San Carlo di Napoli, punto di riferimento storico per l’arte della danza, nell’intento di avvicinare, attraverso un linguaggio visivo moderno, le persone alla antica cultura italiana meridionale dei complessi storici monumentali. L’anfiteatro Campano, il secondo più grande d’Italia dopo il Colosseo, è uno dei luoghi storici e poco conosciuti della Campania in cui Bilancio ha condotto i danzatori sancarliani Danilo Notaro, Tommaso Palladino e Sara Gison, che rappresentano l’arte in una fusione artistico-storico-culturale destinata a un pubblico di giovanissimi che amano la danza, ma che spesso trascurano il grande patrimonio della nostra terra, e a un pubblico ben più ampio amante dell’arte. La dimostrazione ulteriore che la Campania è uno dei luoghi del pianeta a maggior densità di risorse culturali e monumenti. L’anfiteatro campano sarà il primo testimone di una serie di scatti. Per ogni complesso monumentale saranno coinvolti alcuni danzatori e quelli scelti avranno una funzione rappresentativa. La dottoressa Ida Gennarelli, direttrice del Museo Archeologico dell’ Antica Capua, è stato il fulcro politico di questo progetto ed ha aperto alla danza l’importante complesso monumentale dell’antica Capua.
Luigi Bilancio (Dance Photographer) si racconta
Mi ritrovo davanti alla tastiera a raccontarmi e questa è la cosa più difficile per me. Sono un appassionato dell’arte della fotografia e ho iniziato a fotografare la danza per “necessità”, o meglio per amore. L’amore della mia vita è una tersicorea: all’età di diciotto anni ho conosciuto la mia attuale moglie, oggi insegnante di danza. Pur di starle vicino, all’epoca, sono stato per mesi dietro uno specchio segreto di una sala di danza a vederla studiare. Lì ho potuto ammirare quel mondo fatto di sacrificio e dedizione, una dimensione fuori dal tempo, ma che nei secoli non è mai completamente mutata sia nella sostanza che nella forma. Dico sempre che mia moglie mi ha dato la possibilità di affacciarmi a questo mondo e ammirarne la bellezza, ma anche i sacrifici. Nel 2014 ho elaborato il mio primo progetto fotografico Outre la Danse – il bello è solo l’inizio del tremendo, nato dal desiderio personale di raccontare il ‘dietro le quinte’ della danza, evidenziandone il sacrificio, la passione, il dolore, la solitudine e, a volte, anche la ‘pazzia’. Ho voluto la danzatrice in un manicomio abbandonato, perché quel luogo – di abbandono e abbandonato – venivano lasciate morire dalla società persone malate, persone definite pazze o semplicemente diverse. Per anni ho visto applaudire il pubblico a fine spettacolo solo per elogiare l’esecuzione dei danzatori, ma se il pubblico sapesse quanto sacrificio, quanta passione, quanta devozione e dedizione serve per arrivare sul palcoscenico, allora questa società dovrebbe alzarsi in piedi in un interminabile applauso per onorare quei sacrifici. Nel 2016 ho voluto raccontare un altro aspetto della danza con Cover – Radicata al corpo come albero al terreno: è la maschera, ovvero la sovrastruttura con la quale ci presentiamo, ci relazioniamo alle persone e che spesso dimentichiamo di avere e a volte non permette di mostrarci per quello che siamo. Ma se la maschera, all’improvviso, si sgretolasse e mostrasse l’essenza e la purezza, cosa succederebbe? Ho giocato con continue contrapposizioni di colore e sesso per suscitare nell’osservatore continue domande e altrettante curiosità. Nel 2018 è stata la volta di AQVA – L’istante infinito di un momento, un progetto che ha visto il coinvolgimento di alcuni danzatori del Teatro di San Carlo, ai quali ho chiesto di realizzare con l’acqua una serie di immagini fotografiche che riproducessero, attraverso le gocce d’acqua, la dinamica della danza al di là della stasi di una immagine. Dal marzo del 2019 il progetto è in mostra presso il Teatro San Carlo.
Teatro Filarmonico di Verona: “Madama Butterfly”
Verona, Teatro Filarmonico, Rassegna autunnale della Fondazione Arena
“MADAMA BUTTERFLY”
Tragedia giapponese in tre atti su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica.
Musica di Giacomo Puccini
Cio-Cio-San YASKO SATO / DARIA MASIERO
Suzuki MANUELA CUSTER
Kate Pinkerton LORRIE GARCIA
F. B. Pinkerton RAFFAELE ABETE
Sharpless GIANFRANCO MONTRESOR
Goro MARCELLO NARDIS
Il principe Yamadori SALVATORE SCHIANO DI COLA
Lo zio Bonzo CRISTIAN SAITTA
Il Commissario imperiale NICOLÒ RIGANO
L’Ufficiale del registro MAURIZIO PANTÒ
La madre di Cio-Cio-San EMANUELA SIMONETTO
La cugina di Cio-Cio-San EMANUELA SCHENALE
Orchestra e Coro dell’Arena di Verona
Direttore Francesco Ommassini
Regia Andrea Cigni
Scene Dario Gessati
Costumi Valeria Donata Bettella
Luci Paolo Mazzon
Verona, 19 dicembre 2019
Nel dramma in kimono che ebbe un esordio catastrofico, e che vanta tutt’oggi un folto gruppo di detrattori, della sua musica vezzeggiativa e delle sue giapponeserie, si confrontano due poli: il maschile e il femminile, la sensualità e l’ideale, il consumismo occidentale, di corpi e di esperienze, e la fedeltà e la devozione all’Igikai di vita. Le prospettive del libretto sono molteplici e moderne, e la regia di Andrea Cigni ci sembra coglierle e renderle in buona parte in un allestimento essenziale, simbolico e per questo convincente. La tragica vicenda si svolge tra esili tronchi di betulla che riempiono lo spazio in tutta la sua altezza, senza che si intraveda di quelle la chioma. La solitudine e la vuotezza di una vita trascorsa in fedele (ed inutile) attesa è già evocata in questa ambientazione: non si tratta dunque della foresta romantica, la natura parlante e tragica cara a Leopardi, né quella corroborante e primordiale di Thoreau, ma piuttosto una flora sublimemente decorativa, spettatrice dei sentimenti umani e a suo modo terapeutica – quasi che il dolore di Butterfly possa spezzarle l’anima senza abbrutirla, proprio perché custodito dalla purezza dei boschi. Tra quei tronchi scendono incessantemente farfalle di carta, che divengono contrappunto essenziale alla musica: Cigni non rinuncia all’elemento fiabesco, consapevole che esso è il veicolo più adatto a trasportare il fardello delle passioni, alte e distruttive, dell’uomo. D’altra parte, il mistero della civiltà giapponese, ben si esprime nella lieve metafora dell’origamo: il lutto della carta spezzata dà vita ad una forma nuova (e i loro dei possano preservarli dalla barbarie occidentale). In uno spazio così disegnato, le luci, di Paolo Mazzon, parlano diverse lingue quante sono le sfumature emotive, e scandiscono le ore del giorno e della notte con estrema delicatezza. Anche i movimenti degli elementi e delle persone riflettono questi concetti: la casa di Butterfly è una scatolina che numi mascherati fanno scorrere, quasi galleggiasse, in perfetto silenzio.
La folla giapponese si muove con una compostezza rituale, e l’ingresso di Butterfly è una cerimonia commovente. Emerge un contrasto, che è etico oltreché estetico, anche nei gesti: quelli di Cio-Cio-San e Suzuki, sempre liturgici e pietosi, e quelli degli yankees, generici e volgari. Il cast non ha reso piena giustizia alla sfaccettata psicologia di questo libretto, almeno non in modo omogeneo. Yasko Sato, presenza nobile e pudica sulla scena, ha uno bello stile parlato e fraseggi ben architettati, ma forza negli acuti e pecca qui e là nell’intonazione.
La sua performance, che si conclude alla fine del I Atto a causa di indisposizione, è comunque più valida di quella di Raffaele Abete, F. B. Pinkerton. Nel primo atto la voce di Abete è opaca, spesso soverchiata dall’orchestra. Il tenore è in evidente difficoltà a trovare il punto di risonanza del proprio strumento, e gli acuti giungono per spinta antiestetica, sia all’udito che alla vista. Sebbene il meglio fosse nel Primo, Abete si risolleva nel Terzo Atto, ove riesce finalmente e cavare degli armonici dal suo strumento. Daria Masiero giunge a sostituire Sato nel II Atto, e la scena guadagna la sua figura di donna maestosa e imponente. Il canto è pregevole, sinuoso e mai sopra le righe, begli gli acuti, anche questi senza eccessi. Masiero dipana un bel ventaglio di umori e sentimenti, e ci restituisce una donna irremovibile e appassionata, ma sempre d’un contegno verecondo, intimamente in bilico tra fede e disperazione. Un plauso particolare va a Manuela Custer e alla sua Suzuki, dama fedele e pietosa della geisha, dalla voce calda e dal timbro consolatorio. Quella di Gianfranco Montresor è una delle migliori voci in campo ed il personaggio di Sharpless, pavido e irrisolto, è reso piuttosto bene. Interessante anche il Goro di Marcello Nardis, che con voce nasale e tratti macchiettistici ha ricreato il sensale odioso e opportunista.
Completano con onore il cast Salvatore Schiano Di Cola (Principe Yamadori), Nicolò Rigano, (Commissario imperiale), Cristian Saitta, zio Bonzo vocalmente impressionante, Maurizio Pantò (Ufficiale del registro), Lorrie Garcia (Kate Pinkerton), Emanuela Simonetto ed Emanuela Schenale, rispettivamente madre e cugina di Butterfly. L’orchestra, dotata di una vasta gamma di colori e d’accenti, è diretta magnificamente da Francesco Ommassini, che si conferma un intelligente concertatore e un fine accompagnatore delle voci. Foto Ennevi per Fondazione Arena
In memoriam… Peter Schreier (1935-2019)
Tenore, Peter Schreier (Dresda, 29 luglio 1935 – Meißen, 25 dicembre 2019)
Richard Strauss (1864 – 1949) – 17: “Friedenstag” (1938)
Richard Strauss (Monaco di Baviera 1864 – Garmisch-Partenkirchen 1949)
“Friedenstag” (Giorno di pace) op. 81, Opera in un atto su libretto di Joseph Gregor
Prima rappresentazione: Monaco, Staatsoper, 24 luglio 1938
Nonostante la convinzione di Strauss che l’opera fosse un genere del tutto superato, il tarlo del teatro continuava a roderlo tanto che, già durante la composizione di Die Schweigsame Frau, cominciò a cercare, insieme con Zweig, un nuovo soggetto. Strauss, che aveva avuto modo di apprezzare le qualità di Zweig proprio in occasione della composizione di Die Schweigsame Frau riteneva di aver trovato nel drammaturgo di origine ebraica un nuovo Hofmannsthal. Zweig, da parte sua, onorato ed entusiasta di andare incontro alle richieste del grande compositore tedesco, agli inizi degli anni ’30, nel pieno della collaborazione per Die Schweigsame Frau, gli aveva proposto ben 18 soggetti, in genere commedie, tra cui spiccano una Mirandolina, tratta dalla Locandiera di Goldoni, la Calandria dall’omonimo lavoro di Bernardo Dovizi da Bibiena, l’Anfitrione ispirato all’omonimo lavoro di Kleist e L’ebrea di Toledo tratta dall’omonimo Vega-Grillparzer oltre all’ambizioso progetto di riprendere il libretto dell’abate Casti, Prima la musica, poi la parola. La scelta, infine, sembrò ricadere su un dramma militare, 24 Oktober 1648, il cui scenario, in tre quadri, fu inviato da Zweig a Strauss il 21 agosto 1934. Era questo un periodo felice per il drammaturgo le cui opere potevano essere ancora vendute, come egli stesso ricordò nel suo scritto autobiografico, Il mondo di ieri:
“Subito dopo l’incendio del Reichstag dissi al mio editore che i miei libri in Germania sarebbero stati ben presto un affare finito. Non dimenticherò mai la sua sorpresa e la sua protesta «Chi dovrebbe proibire i suoi libri» mi disse allora nel 1933. « Lei non ha mai scritto una parola contro la Germania, né mai si è immischiato di politica» È chiaro: tutti gli orrori, come i roghi di libri, le gazzarre attorno alla berlina, che pochi mesi dopo eran tutti reali, apparivano un mese dopo la salita al potere di Hitler, ed anche a persone di ampie vedute, eventualità inconcepibili […].Sino a quando non vi fu pericolo di prigione o di campo di concentramento, i miei libri, nel 1933 e nel 1934, vennero venduti malgrado ogni difficoltà quasi come prima. Ci volle il grandioso decreto «a protezione del popolo tedesco», in cui si dichiarava delitto la stampa, la vendita e la diffusione dei nostri libri, per staccare da noi con la violenza i milioni di tedeschi, i quali ancora oggi preferiscono legger noi ed accompagnare fedelmente l’opera nostra che non subirsi certi scrittori improvvisamente gonfiati, i poeti «del sangue e della terra»”.
Le già ricordate vicissitudini, che seguirono la prima di Die Schweigsame Frau, costrinsero Zweig e Strauss ad interrompere i rapporti nonostante il compositore continuasse a mantenere una relazione epistolare con il suo librettista il quale, però, non volendo lavorare in segreto, gli suggerì di rivolgersi a dei poeti ariani. Alla fine riuscì quasi ad imporre a Strauss il nome di Joseph Gregor che sarebbe diventato il suo collaboratore anche per le sue opere successive. Già al primo incontro con Gregor, avvenuto il 7 luglio 1935, Strauss impose le sue idee al suo nuovo collaboratore pretendendo per la nuova opera, che avrebbe dovuto sviluppare lo scenario approntato da Zweig, una forma di glorificazione della pace. Il 24 ottobre 1648 corrispondeva al giorno in cui fu firmata la pace di Westfalia ponendo fine alla Guerra dei trent’anni, il primo conflitto che coinvolse quasi tutte le potenze europee eccezion fatta per la Russia e l’Inghilterra. Lo stesso Gregor raccontò le modalità in cui si svolse la loro collaborazione:
“Nei primi giorni del luglio 1935 la sceneggiatura del Friedenstag era pronta; comprendeva la disperazione nella città assediata e, nel cuore del comandante, il più alto sentimento del dovere, l’obbligo a non cedere dalla sua postazione, a qualunque costo. Il contrasto fra il suo stato d’animo e quello di tutta la città si ritrova, a un livello più basso, tra il marito e la moglie; è lei che sostiene l’ideale dell’Intesa, ma un profondo amore coniugale li avvicina, malgrado le divergenze d’opinione […]. Ho lavorato al testo del Friedenstag durante l’estate e l’autunno del ’35, in collaborazione con il Maestro, a Garmisch […]. Il nostro accordo sul soggetto delle parti in prosa del Friedenstag è stato completo”.
Zweig, tuttavia, continuò a collaborare nell’ombra al progetto intervenendo in modo più concreto sulla stesura del libretto e sulla scena dei due comandanti come è dimostrato anche dalla pubblicazione dell’epistolario intrattenuto tra Zweig e Gregor nel 1991. Ultimato il libretto, Strauss fu particolarmente rapido nella composizione dell’opera che, già pronta nel mese di gennaio 1936, dovette attendere due anni prima che potesse vedere le scene; essa fu rappresentata, infatti, per la prima volta, a Monaco il 24 luglio 1938, tra applausi di stima e fischi, sotto la direzione di Clemens Krauss, con Hans Hotter (comandante della città assediata), Viorica Ursuleac (Maria), a cui l’opera fu dedicata, Georg Hann (sergente maggiore), Julius Patzak (Caporale). L’opera, il cui messaggio pacifista era in stridente contrasto con l’aggressività militare nazista, dopo 98 repliche fu proibita in tutti i teatri tedeschi dal regime che nel frattempo aveva compreso l’inopportunità di una sua rappresentazione. In Italia fu rappresentata a Venezia nel 1940 sotto la direzione di Vittorio Gui in una versione metrica in italiano prima di sparire dai cartelloni teatrali nel dopoguerra eccezion fatta per due riprese a Monaco nel 1966 e nel 1988 in forma di concerto e al Teatro Massimo Bellini di Catania nel 1991.
L’opera
Formalmente una cantata, in quanto quasi del tutto priva di azione, il Friedenstag si svolge nella fortezza di una città tedesca cattolica assediata dai protestanti dell’Holstein il 24 ottobre 1648. Un tema, armonicamente instabile caratterizzato da quinte diminuite, che rappresenta l’incertezza indotta dalla guerra, e un altro tema puntato militaresco dipingono un efficace affresco dell’ambiente nel quale si svolge la parte iniziale dell’opera nella quale un soldato semplice informa il sergente maggiore che il nemico ha appena incendiato una fattoria. Nel frattempo giunge un soldato piemontese che ha varcato le linee nemiche per portare un messaggio dell’imperatore; quasi a marcare la speranza della pace, il soldato intona una canzone, La rosa che è un bel fiore, il cui testo sarebbe stato tratto, secondo quanto affermato dallo stesso Gregor, da un canto popolare udito nel Sud Tirolo. La struttura melodica del brano, estremamente semplice e regolare, apre uno squarcio di luce nella cupa atmosfera di questa parte iniziale dell’opera. Gli altri militari tedeschi fanno della facile ironia sul giovane piemontese che, a loro giudizio, non avrebbe mai conosciuto la guerra. Gli altri soldati, svegliatisi, sognano in realtà quella pace che non hanno mai conosciuto in un coro piuttosto convenzionale che comunque sembra non toccare la pace interiore del soldato piemontese il quale continua a cantare. Intanto si fa sempre più vicino un coro fuori scena; è il popolo che, affamato, chiede il pane tra temi marziali e rulli di timpani in una scrittura cupa a cui contribuisce anche un’armonia, per nulla condotta secondo i principi tradizionali, ma capace di evocare un’atmosfera tesa che cresce fino al parossismo. Temendo una sommossa, il sergente maggiore fa chiudere la porta e ordina ai soldati di puntare i fucili, ma in quel momento sulle note del tema iniziale costituito dalle quinte diminuite discendenti un ufficiale annuncia l’arrivo di una delegazione capeggiata dal Borgomastro e da un prelato. Una lugubre marcia funebre, il cui tema è esposto dai violoncelli e dalle viole su inquietanti colpi dei timpani, accompagna il popolo che prorompe, in una scrittura armonica instabile, nel grido Hunger (Fame). Interviene, allora, il comandante della fortezza che dall’alto di una scala, stringendo al petto un documento, domina la situazione con autorità. L’uomo decide di ricevere la delegazione formata dal Borgomastro e dal Prelato i quali, in una scrittura liricamente implorante, gli chiedono di consegnare la cittadella al nemico per evitare ulteriori sofferenze alla popolazione. Il Comandante oppone un netto rifiuto alle richieste della delegazione e in quel momento, accompagnato da un tema di carattere marziale, arriva dal fronte un ufficiale ferito che informa il comandante sulla consistenza delle munizioni a disposizione del suo reparto e sulla necessità di un rifornimento per poter resistere al nemico. Dopo aver opposto un netto rifiuto a questa richiesta, il comandante legge il documento che stringeva in petto in tono solenne e accompagnato dai timbri scuri degli ottoni; si tratta di una dispaccio con il quale l’Imperatore ordina di non abbandonare la città qualunque cosa accada. La lettura del dispaccio suscita profonda agitazione in una donna che maledice la guerra e nel popolo il quale, con tono implorante e in una scrittura corale che assume contorni solenni e quasi sacri, chiede al comandante di tornare indietro sulle sue decisioni. Questi, inizialmente, sembra propenso ad accogliere le richieste del popolo, ma alla fine, sempre accompagnato da ritmi marziali e dal lugubre tema della marcia funebre, chiede ai presenti di pazientare fino a mezzogiorno e promette loro di attendere il segnale per poter aprire la porta della città. Appena il popolo si allontana, riconoscente e speranzoso nella prossima fine della guerra, il Comandante, costretto dal dispaccio imperiale a non abbandonare al nemico la città, manifesta ai suoi sottoposti l’intenzione di chiudersi all’interno della fortezza e di farla esplodere. Diverse sono le reazioni e se il Sergente maggiore, il Comandante dell’artiglieria e la Sentinella si mostrano propensi a seguire il loro Comandante nel gesto suicida, di diverso avviso sono il Moschettiere e il Cornista che vorrebbero andar via. In una scrittura ancora una volta lugubre per la ripresa del tema della Marcia funebre il Comandante ordina di preparare la polvere da sparo.
La seconda parte di questo atto unico si apre con l’intervento pacificatore della moglie Maria, la quale, oppressa dalla situazione angosciante della cittadella, in un lungo monologo, dopo aver meditato sulla freddezza del marito che la trascura, perché preso dal suo dovere di soldato, si lascia cullare, in una scrittura di tenero lirismo, dai ricordi del passato e dal sogno di un avvenire migliore in cui possa tornare a regnare la pace. Con l’arrivo del Comandante ha inizio il lungo duetto nel quale la donna scongiura il marito a desistere dal suo proposito suicida, ma, di fronte all’atteggiamento risoluto dell’uomo che intende compiere il proprio dovere fino in fondo, decide di restargli accanto e di morire insieme a lui, nonostante questi cerchi di dissuaderla. In questa scena simbolicamente è celebrato il trionfo dell’amore coniugale sulla guerra e ciò appare evidente nel breve interludio orchestrale che, introdotto da Strauss alla fine del duetto, ripresenta una buona parte dei Leitmotiv sin qui esposti, ma trasfigurati in un trionfo di luce che sembra affermare la vittoria dell’amore sulla morte e sulla guerra.
Alla fine dell’interludio il ritorno di un’atmosfera lugubre fa intendere che sta per attuarsi la volontà suicida del Comandante, ma all’improvviso tre colpi di cannone introducono il lungo scioglimento finale costruito musicalmente come una preparazione al conclusivo inno di giubilo. Il Comandante, temendo un attacco nemico, ordina ai soldati di piazzarsi ai loro posti, ma intorno aleggia un’atmosfera tranquilla annunciata anche dal suono delle campane. In effetti le truppe dell’Holstein si stanno avvicinando, ma con delle bandiere bianche in segno di pace, come riferito dall’Ufficiale e giunge anche il Borgomastro con la sua delegazione felice per la pace testé siglata. In orchestra si sente una marcia gioiosa che contribuisce a creare quell’atmosfera di festa per la pace conclusa e accompagna l’ingresso sulla scena del capitano dell’Holstein che, sempre accompagnato dal tema della marcia, annuncia l’armistizio appena siglato. Questi dà la mano in segno di pace al Comandante il quale reagisce ponendo mano alla spada non volendo fare mai la pace con un eretico. Tra i due uomini si frappone la moglie con un nuovo intervento pacificatore, questa volta, risolutivo che conduce allo splendido “concertato” finale, pagina di rara bellezza e caratterizzata da una raffinata scrittura contrappuntistica nella quale il coro glorifica la pace e finalmente anche i due Comandanti cantano all’unisono in un ideale segno di riappacificazione e di comunione d’intenti. Protagonista di questo finale è il coro che intona un diatonico e trionfale inno di giubilo per la pace ricomposta e, rappresentando il popolo, desideroso di pace, sembra ricordarne al Reich il valore in un momento difficile della storia del vecchio continente alle prese con la crisi dei Sudeti e dell’Ansschluss e ormai sull’orlo del baratro per l’imminente Seconda Guerra Mondiale.
Wolfgang Amadeus Mozart: “La clemenza di Tito” (1791)
Opera seria in due atti su libretto di Caterio Mazzolà dall’omonimo dramma per musica di Pietro Metastasio. Rolando Villazón (Tito Vespasiano), Joyce Di Donato (Sesto), Marina Rebeka (Vitellia), Tara Erraught (Annio), Regula Mühlemann (Servilia), Adam Plachetka (Publio). Rias Kammerchor, Denis Comtet (maestro del coro), Chamber Orchestra of Europe, Yannick Nézet-Séguin (direttore). Registrazione: 2018. 2 CD DG 00289 483 5210
Può la debolezza di un unico interprete compromettere la riuscita complessiva di una registrazione che in tutte le altre componenti risulta più che riguardevole? Purtroppo la storia della discografia ci insegna che questo accade e che spesso singole pecche hanno guastato esecuzioni per ogni altro aspetto memorabili.
La nuova registrazione DG de “La clemenza di Tito” parte del progetto mozartiano che la casa discografica sta portando avanti con il direttore canadese Yannick Nézet-Séguin rientra purtroppo nella situazione sopra descritta. A mancare è infatti proprio il ruolo del titolo, vero che pur eponima la parte di Tito non ha quella centralità che ci si potrebbe aspettare ed è priva di grandi arie di bravura analoghe a quelle concesse ad altri personaggi ma è sempre il punto di equilibrio teatrale e musicale della costruzione. Con tutto l’affetto umano che sempre gli si riconosce la prestazione di Rolando Villazón non può certo ritenersi infatti soddisfacente. Le problematiche fisiche che hanno tormentato il cantante messicano hanno lasciato più di un segno. L’emissione è faticosa, la linea di canto indurita che lascia percepire in tutta l’opera un senso di sforzo e di fatica. Le difficoltà si ripercuotono anche nei recitativi dove la giusta ricerca di una maggior drammaticità porta ad effetti stilisticamente inappropriati. Certo resta un timbro suggestivo che da al ruolo una pienezza e un’autorità impossibili per gli esangui tenorini cui a torto è spesso affidato. A ciò si aggiunge la ben nota intelligenza interpretativa di Villazón, questo non basta a compensare i problemi di uno strumento su cui la sorte si è abbattuta con particolare crudeltà.
Il resto della produzione è invece di altissimo livello. Qualche critica si può avanzare per la direzione di Nézet-Séguin. Il direttore è alla guida di uno strumento di sicura affidabilità come la Chamber Orchestra of Europe da cui trae splendide sonorità vivide e luminose; bei colori e ritmiche molto brillanti. Una direzione capace di grandi trasparenze, di suggestivi abbandoni melodici. Si apprezzano l’energia dei cori – specie quello che apre la scena dell’anfiteatro di un rigore quasi da musica sacra – e la cura degli accompagnamenti. A tratti manca però un po’ di autentica drammaticità, di quell’aulica compostezza che è propria dell’opera seria neoclassica e in certi momenti le atmosfere sembrano virare troppo verso tonalità di mezzo carattere quasi da trilogia dapontiana così come un po’ spente sono le fiammate già romantiche del finale primo.
Vera mattatrice risulta Marina Rebeka. Alle prese con uno dei personaggi più impervi di tutto il repertorio – non solo mozartiano – la cantante lettone firma un’interpretazione da antologia. Voce autenticamente bella per timbro e colore, sorretta da una tecnica impeccabile, domina senza scomparsi l’ampia tessitura del ruolo con gravi pieni e sonori e acuti sfolgoranti. Nonostante le difficoltà del ruolo la Rebeka non perde mai quella morbidezza dell’emissione, quella pulizia del canto che è propria della miglior scuola belcantistica italiana in cui la cantante si è formata e che tendeva a mancare in pur grandi interpreti di tradizione mitteleuropea. Se a questo si aggiunge un temperamento al calor bianco da autentica tragédienne è facile intuire come la sua prestazione s’imponga immediatamente fra quelle da ricordare.
Degno Sesto di tanta Vitellia è Joyce di Donato, semplicemente impeccabile da ogni punto di vista. Musicalissima nel canto, di abbagliante facilità nei passaggi di coloratura, di nobile eleganza nell’accento, impeccabile in un fraseggio curatissimo, sempre cangiante di colori e di inflessioni. Forse il timbro è un po’ chiaro e in alcuni passaggi un po’ più di fuoco non avrebbe guastato – ma la direzione poco concedeva al riguardo – quello che si ascolto è un’autentica lezione di canto.
Tara Erraught (Annio) e Regula Mühlemann (Servilia) cantano in modo squisito – qualche imprecisione nei recitativi per la Erraught ma nulla di disturbante. Nel loro duettino, non hanno la dovizia vocale che si ritrova in altre edizioni ma sono di una grazia e di una spontaneità incantevoli.
Adam Plachetka è un Publio dalla voce più chiara e giovanile di quanto voglia la tradizione, il che non guasta essendo il ruolo quello di un ufficiale in servizio e non di un vecchio senatore, ma anche vocalmente più robusto e meglio cantato e arricchito da un accento di nobile virilità.
Un’edizione quindi complessivamente buona, con punte di eccellenza, con il limite di un protagonista troppo problematico.
“Lo Schiaccianoci” e i suoi personaggi al San Carlo di Napoli
Napoli, Teatro di San Carlo, stagione di balletto 2019-2020
“LO SCHIACCIANOCI”
Coreografia Giuseppe Picone da Lev Ivanov e Marius Petipa
Musica Pëtr Il’ic Čajkovskij
Clara SARA SANCAMILLO
Lo Schiaccianoci FRANCESCO LORUSSO
Fata Confetto MAIA MAKHATELI
Principe Schiaccianoci SALVATORE MANZO
Drosselmeyer EDMONDO TUCCI
Regina della Neve LUISA IELUZZI
Orchestra e Coro di Voci Bianche del Teatro di San Carlo
Corpo di Ballo del Teatro di San Carlo
Direttore del Corpo di Ballo Giuseppe Picone
Allievi della Scuola di Ballo del Teatro di San Carlo diretta da Stéphane Fournial
Direttore Karen Durgaryan
Direttore del Coro di Voci Bianche Stefania Rinaldi
Scene Nicola Rubertelli
Costumi Giusi Giustino
Napoli, 29 dicembre 2018 ore 21.00
Ancora un appuntamento con Lo Schiaccianoci al San Carlo di Napoli, nella versione firmata dal Direttore del Corpo di Ballo Giuseppe Picone, in scena al Massimo napoletano già da alcune stagioni, la cui tradizionalità dell’impianto attira ancora una volta il pubblico più che nutrito delle feste natalizie. Trattandosi di un lavoro già noto, rimandiamo alle scorse recensioni la parte riguardante la coreografia e la drammaturgia (stagione 2017-2018 e 2018 -2019), dando a questa recensione un taglio insolito a causa di un fortuito posizionamento “fuori visione”, che non ha permesso alla sottoscritta di poter godere a pieno delle evoluzioni coreutiche del balletto sancarliano. Le soluzioni possibili sarebbero state tre: restare sulla falsariga delle vecchie recensioni; fingere di aver visto tutto e descrivere solo il visto; approfittare della situazione per offrire al lettore qualcosa di diverso. Se le prime due ipotesi sono apparse poco oneste o scontate, la terza è quella che state leggendo.
Fatta salva una doverosa breve analisi di quanto visto dalla posizione a picco sul proscenio, si darà la parola ai due veri protagonisti del balletto: Clara e Drosselmeyer, l’una soggetto del sogno, l’altro il suo regista e drammaturgo ‘interno’. E questo perché, se si evita una focalizzazione esterna, è dall’interno che proveremo a leggere il balletto che quasi ogni famiglia tradizionalmente sceglie per introdurre i propri piccoli (danzatori e non) in un Ente lirico. Ma procediamo con ordine inquadrando brevemente gli interpreti. Sara Sancamillo, solista della Compagnia, è una Clara consapevole e matura: la sua fisicità la rende una perenne ragazzina, che si mostra a volte più spaventata che sorpresa davanti a ciò che non si aspetta e che riesce a rendere con naturalezza quei passaggi intermedi tra la danza pura e la pantomima tradizionale, incarnando un personaggio credibile e non scontato. Motore dell’azione scenica è Drosselmeyer: proiezione dei sogni infantili di una bambina quasi donna, oscilla tra il misterioso e il seducente, tra il paterno e il magico. Non è un ruolo semplice perché rischia di essere banalizzato – soprattutto se troppo danzato – ed è una immagine che dovrebbe mantenere il distacco fisico dal resto dei danzatori in scena, con un linguaggio corporeo diverso, proprio perché è l’unico ad avere accesso a mondi incantati. Il filo conduttore della storia insomma, la cui importanza è universalmente riconosciuta. L’ultima performance della carriera del Primo ballerino Edmondo Tucci è affidata a questo ruolo, che da tempo ricopre in maniera sempre diversa: talvolta papà affettuoso, talaltra incantatore misterioso. Per un danzatore alle soglie del congedo è importante poter esprimere la propria esperienza, al di là dei passi, ma questo lo leggeremo poco più avanti dalle parole del protagonista.
Luisa Ieluzzi è stata una regina della neve elegante e altera, sia pure imprecisa in alcuni punti; fluida e sicura la Regina dei Fiori di Anna Chiara Amirante, accompagnata dal valido Alessandro Staiano. La danza spagnola di Giovanna Sorrentino e Pasquale Incoronato ha lasciato perplesso chi scrive ma anche il pubblico, che ha applaudito con notevole ritardo, a causa di palesi sbandamenti (la prima recita dopo le festività natalizie avrà risentito del riposo prolungato?). Degna di nota la Danza pastorale di Candida Sorrentino, Claudia D’Antonio e Danilo Notaro, tre dei migliori elementi della Compagnia.La prestazione tecnica più alta è stata ancora una volta quella di Salvatore Manzo che tuttavia, appurata la brillantezza delle sue doti, suscita più voyeuristici interessi su aplomb e pirouette che una autentica attrazione artistica. La sua figura esile lo rende il solista perfetto, ma poco adatto al Pas de Deux. La Fata Confetto Maya Makhateli, forte di una sicurezza che le ha permesso una gestione totalmente autonoma delle difficoltà di coppia. Dotata di una fisicità non filiforme, Makhateli incarna l’estetica di una danzatrice forte e seducente che dovrebbe cominciare a essere preferita alla innaturale esilità dei modelli imperanti, per una rinnovata femminilità che non costringa il corpo della donna in una visione asessuata e implicitamente misogina.
Impreciso il corpo di ballo, sia maschile che femminile, nella gestione degli insiemi: anche gli elementi migliori, in un sistema che non si regola all’unisono nei port de bras o nei movimenti, si assimilano visivamente agli squilibri. Si ha l’impressione di tanti solisti nella massa, laddove c’è da sacrificarsi alla riuscita dell’insieme e a non voler a tutti i costi mostrare la propria individualità. Ma il pubblico delle feste è, per lo più, poco esigente: a loro basta ammirare tutù vaporosi e scintillii di luci per vivere la magia del balletto, grazie soprattutto alla bellezza della musica di Čajkovskij o, in senso più ampio, all’indefinito fascino della musica in sé, che è l’anima vera di questo spettacolo con la sua qualità, la sua forza, la sua abilità descrittiva. L’orchestra del Teatro di San Carlo, ha eseguito la partitura sotto la guida del Maestro Karen Durgaryan. Ma veniamo adesso a interrogare i veri protagonisti della storia: chiederemo una cosa a Clara e una cosa a Sara Sancamillo; una cosa a Drosselmeyer e uan cosa a Edmondo Tucci.
Siamo proprio sicuri che Clara volesse restare all’interno del sogno o si può credere che, in fondo, sia più felice di tornare alla realtà?
[Sara Sancamillo] Clara durante il suo sogno si trova a viaggiare in regni che non sono sempre ilari e gioiosi. Affrontare i topi e la loro lotta contro l’esercito del suo Schiaccianoci, vedere vacillare le sue certezze nel momento in cui il Re dei topi sta per vincere la sua battaglia sicuramente reca angoscia. L’incontro con la Fata Confetto la mette quasi in soggezione e alla domanda: «Tu chi sei e cosa ci fai qui?», Clara è costretta a chiedere aiuto a Drosselmeyer. Infine, ma non meno importante, l’evoluzione del suo rapporto con il Principe: lo stupore di una bimba che si trova a vivere qualcosa che forse è più grande di lei. Quindi, per tornare alla domanda, forse la “mia” Clara, che vive questo sogno con grande intensità, alla fine è quasi contenta di tornare nella sua realtà semplice fatta di bambole di pezza, realtà sicuramente meno avvincente, ma probabilmente più confortante.
Sara Sancamillo, in questi anni di esperienza, cos’ha imparato dal personaggio di Clara e come cerchi di affrontarlo diversamente di anno in anno?
Clara è il ruolo che ho danzato al quale sono più legata. Mi ha insegnato a tornare indietro nel tempo, a vivere la magia del Natale come la vivono i bambini e come l’ho vissuta io nella mia meravigliosa infanzia. Ogni volta che lo interpreto, torno ad avere dieci anni e rivivo quelle emozioni e quella gioia che forse, quando ero bambina, non sapevo riconoscere. L’attesa del dono più desiderato, il potersi riunire con le persone più care, scegliere con inconsapevolezza che quello della Vigilia di Natale sarà un giorno felice. Ecco, questa è la mia preparazione mentale per questo ruolo, che ogni anno ho il privilegio di interpretare. Sono grata a Clara perché, come una macchina del tempo, mi fa tornare bambina per due ore e mi fa essere felice!
Edmondo Tucci, se potesse riscrivere Lei la storia con gli occhi di Drosselmeyer, cosa cambierebbe?
È una domanda interessante, la storia di Schiaccianoci è un viaggio interiore nel profondo inconscio di Clara, la trasposizione coreografica ispirata alla penna di Hoffmann, per cui a mio avviso non può non tener conto dell’aspetto psicologico dei personaggi. Clara nel suo sonno combatte l’eterna battaglia tra il bene e il male, un conflitto esistenziale che ognuno di noi affronta ogni giorno. Il mio punto di vista è quello di un artista che ha ballato, nel tempo, diversi ruoli di questo balletto e più versioni coreografiche, come sono state varie le versioni in cui ho interpretato il ruolo di Drosselmeyer; credo quindi di poter dire che non modificherei la struttura della storia in sé, ma darei più importanza o caratterizzazione proprio a questo personaggio, fondamentale alla narrazione stessa del balletto. Darei a questo ruolo una veste più enigmatica, lo porterei a essere ancor di più il filo conduttore, il narratore della storia, colui che traghetta Clara in questo viaggio nel suo inconscio, nel suo sonno più profondo. Credo che l’errore che alcuni coreografi tendono a fare sia pensare che Lo Schiaccianoci sia un comune balletto, cioè si concentrano molto sull’aspetto tecnico e coreografico della danza. Sarebbe invece opportuno concentrarsi sulla narrazione, sulla regia: non siamo davanti al tipico balletto di repertorio classico, si tratta principalmente di un esercizio di stile registico, dove la danza è soltanto un linguaggio al servizio della storia.
Al termine di una onorata carriera di Primo ballerino al Massimo partenopeo, quali sono i ruoli che le hanno cambiato il modo di vedere la danza?
Al termine della mia carriera sento innanzitutto di dover ringraziare tutte le persone che mi sono state vicine, tutti gli artisti con i quali ho collaborato: come non ringraziare Giusy Giustino e i suoi meravigliosi costumi, Annamaria Sorrentino, con il suo grande mestiere al trucco, e ricordare artisti come Roberto Fascilla, compianto Direttore del Corpo di ballo, e il Maestro Ricardo Nuňez, coreografo e artista eccezionale. Tornando alla domanda, potrei rispondere tutto: tutto quello che ho danzato ha cambiato la visione che avevo della danza, proprio perché ho avuto la fortuna di conoscere tanti coreografi che spesso hanno avuto il piacere di creare su di me. Ma questo è stato possibile anche per il mio modo di guardare la danza, sempre proiettato verso l’innovazione. I ruoli contemporanei hanno contribuito ad aprire nuovi orizzonti in me e mi sono serviti a sviluppare anche un mio linguaggio coreografico. Tuttavia balletti come Giselle, con la loro veste romantica, hanno tracciato un solco profondo nella mia storia di ballerino . lascio oggi il teatro San Carlo soddisfatto della mia carriera. Sono stato L’ultimo Primo ballerino ad andare in pensione, per cui mi sento di dire che il Teatro e la sua Direzione dovrebbero oggi dare questa nomina ad Alessandro Staiano, componente del Corpo di ballo maschile: non si può più parlare di questo ragazzo come una giovane promessa, ma ormai come un artista che ha già ampiamente dimostrato di meritare questa carica. Il teatro non dovrebbe farsi sfuggire l’occasione, anche attraverso queste nomine, di dare importanza al Corpo di ballo, che più che mai in questo momento di profonda crisi culturale ha bisogno di decisioni forti e di una guida artistica capace di dare certezze e qualità. C’è bisogno di una programmazione di alta qualità artistica capace di far crescere i ballerini e dare al pubblico un prodotto di eccellenza. Più che mai oggi c’è bisogno della certezza del lavoro e della dignità dell’artista, che deve essere visto non più come un numero, ma come una figura professionale irrinunciabile per il Teatro.
Lo Schiaccianoci sarà in scena al San Carlo fino al 5 gennaio, ma l’appuntamento più imminente e importante per il Corpo di Ballo del Teatro di San Carlo è il Concerto di Capodanno dal Teatro la Fenice di Venezia – Hotel Excelsior – Palazzo Pisani Moretta in onda 1° gennaio su Rai 1 alle 12.20 (repliche su Rai 5 alle 18.30 e alle 20.30 su Radio 3), per le coreografie di Giuseppe Picone, con Jacopo Tissi e Olga Smirnova, stelle del Teatro Bolsh’oj di Mosca; la direzione è affidata al Maestro coreano Myung-Whun Chung. (Ph. © Mario Wurzburger)
Bru Zane: “The French Romantic Experience”
Cd 01: Opera (1780-1830). Cd 02: Opera (1830-1900). Cd 03: Operetta and café-concert. Cd 04: The cantata. Cd 05: Sacred music. Cd 06: Orchestral music. Cd 07: Concertante music. Cd 08: Chamber music. Cd 09: Piano music. Cd 10: The mélodie. Limited first edition: 4000 copies. Recordings made between 2008 and 2019. 10 Cd SPPF BZ 2001
“10 Cd per 10 anni di attività”. Potrebbe essere questo lo slogan che sintetizza, The french romantic experience, la recente produzione del Palazzetto Bru Zane costituita da una raccolta, in edizione limitata, di 10 Cd appunto che testimoniano la decennale attività discografica del Palazzetto. Nato nel mese di ottobre del 2009 sotto l’egida della Fondazione Bru, il Palazzetto Bru Zane, la cui sede si trova in uno storico palazzo veneziano risalente al 1695, in 10 anni di attività, ha riportato alla luce le opere di compositori meno conosciuti di quello che viene definito il grande secolo XIX, un periodo di 140 anni dal 1780 al 1920. Si va, infatti, dai grandi riformatori della seconda metà del Settecento tra cui l’italiano Luigi Cherubini, che fu direttore del Conservatorio di Parigi, fino a quei compositori che si inscrivono nella linea tracciata da Saint-Saëns e Massenet. Ognuno dei 10 Cd è una piccola antologia di carattere monografico dedicato a un genere, illustrato attraverso una ricca scelta di brani di autori, le cui opere, riscoperte dagli studiosi del Palazzetto, sono state incise da importanti case discografiche come Alpha Classics, Ambroisie, Aparté, Chandos, cpo, Decca, Erato, Glossa, Grand Piano, La Dolce Volta, L’empreinte digitale, Ligia Digital, Mirare, Musicales Actes Sud, Naïve, Ricercar, Timpani e Zig-Zag Territoires. Si tratta, dunque, di una ricchissima antologia che, come si può leggere nel booklet, sempre molto ben curato, rivela i mille volti del romanticismo francese ora sorridente, ora mesto, ora raccolto, ora spettacolare, ora colto, ora popolare.
Il primo dei 10 Cd è costituito da un’antologia di 17 brani tratti da opere composte nel cinquantennio compreso tra il 1780 e il 1830. Tra i compositori figurano, accanto ai nomi celebri di Luigi Cherubini (Quartetto dalla Lodoïska), di Gaspare Spontini (Terzetto dall’Olimpie) e di Antonio Salieri (Les Danaïdes), quelli meno noti di André-Ernest-Modeste Grétry, di Rodolphe Kreutzer, conosciuto soltanto perché dedicatario della famosa sonata di Beethoven, Jean-Baptiste Lemoyne, e di Étienne-Nicolas Méhul. Questa ricca antologia svela la vitalità del teatro francese in un periodo percorso da profondi rinnovamenti che portano a una riforma della vecchia Tragédie-Lyrique per creare le condizioni della nascita e dello sviluppo dell’opera romantica a cui è dedicato il secondo Cd. Qui troviamo accanto ai titoli meno noti di autori famosi come Le Tribut de Zanora o Cinq-Mars o il raro primo Faust, tutti di Gounod, Le mage di Massenet, L’Africaine di Meyerbeer, il quartetto En cet instant suprême da La Reine de Chypre di Halévy e Les barbares di Saint-Saëns, estratti di opere di autori quasi del tutto dimenticati come il bel duetto di Béatrice e Dante dalla sua opera Dante di Benjamin Godard, il drammatico duetto tra Minna e Troïl tratto da Le Vaisseau fantôme Pierre-Louis Dietsch o l’etereo duetto di Lilia, Hélios dall’ Herculanum di David.
Protagonista del terzo Cd è l’operetta, che in Francia ha avuto il suo battesimo con Mam’zelle Nitouche di Hervé, rappresentata da 2 brani (l’ouverture pot-pourri e il frizzante duetto du Soldat de plomb. Nella ricca antologia non potevano mancare l’Offenbach meno noto di Vert-Vert, de La Périchole e di Boule de neige e André Messager, autore, tra le altre operette, di Les P’tites Michu, della quale sono proposti l’ouverture e il Couplets d’Aristide. Accanto a questi grandi personalità troviamo anche alcuni gioielli di autori meno noti come l’incantevole duetto di Avnturine e Poucet (L’amour) di Le Petit Poucet di Laurent de Rillé o lo spiritoso e delicato couplets di Maud (Le flirt, ô passe-temps charmant ) de La Saint-Valentin di Frédéric Toulmouche.
La grande tradizione della cantata francese, insegnata al Conservatorio, in quanto prova d’esame per l’ambito Prix de Rome, che costituì una tappa obbligata per la carriera di musicisti più o meno famosi, è la protagonista del quarto Cd. Il lavoro di riscoperta di questa produzione, caduta nell’oblio perché ritenuta di scarso livello artistico, ha, invece, rivelato lavori di un certo interesse anche di compositori famosi come Gounod, Debussy, Saint-Saëns, Dukas e Bizet dei quali sono proposti in questo Cd alcuni estratti delle cantate da loro presentate per conquistare il celebre Prix. Accanto a loro possiamo apprezzare quelle di autori meno noti, se non del tutto sconosciuti come Alfred Bruneau, Théodore Gouvy, Xavier Boisselot e André Wormser.
L’equilibrio, già sperimentato negli altri Cd, tra lavori famosi ed altri meno noti, contraddistingue anche l’antologia di musica sacra proposta nel quinto Cd, nel quale, insieme a estratti di Messe di Gounod, a tre mottetti di Saint-Saëns, all’Agnus Dei del Requiem di Cherubini e a brani di Félicien David, figurano passi di opere di autori del tutto sconosciuti quali Charles-Henri Plantade e Fernand de La Tombelle e meno conosciuti come Théodore Dubois che, direttore del Conservatorio di Parigi dal 1896 al 1905, è noto soprattutto per il suo Trattato di contrappunto e fuga ancora oggi studiato.
Dubois è protagonista, con il primo movimento della sua seconda sinfonia, del sesto Cd dedicato a quella produzione sinfonica che nella seconda metà dell’Ottocento è rifiorita in Francia grazie anche all’attività di istituzioni quali il Conservatorio, «Les concerts populaires » de Pasdeloup, Colonne et Lamoureux. Tra i brani più significativi di questo Cd, testimone di questa produzione che si muove nell’alveo della tradizione beethoveniana, vanno sicuramente citati il suggestivo terzo movimento (Grave ma non troppo lento) della Symphonie gothique op. 23 di Benjamin Godard e il brillante rondò della Symphonie no 2 en ré majeur di Louis-Ferdinand Hérold.
Legata alla produzione sinfonica è quella per strumento concertante, che occupa interamente il settimo Cd ed è la testimonianza della vita musicale di Parigi dopo il 1830. Nella capitale francese, infatti, confluirono da tutta Europa grandi compositori e virtuosi per i quali furono composti molti lavori, caduti in seguito in oblio, ma di grande interesse, come il brillante terzo tempo, qui proposto del Concerto per pianoforte e orchestra di Lalo, o il primo brano della Suite concertante per violoncello, pianoforte e orchestra di Dubois o ancora la poetica Fantaisie pastorale pour violon et orchestre di Théodore Gouvy.
L’ottavo Cd propone significativi estratti di composizioni da camera di vari autori a partire da Gounod fino a Godard, Félicien David e Antoine Reicha del quale è proposto il raffinatissimo quarto movimento del Quartetto in sol minore op. 90 n. 2.
Al pianoforte, strumento romantico per eccellenza, che nella Parigi dell’Ottocento, è stato anche sviluppato dal punto di vista della costruzione da importanti fabbriche come la Pleyel, i cui strumenti venivano suonati da Chopin, o l’Érard, è dedicato il nono Cd, dove, accanto al preludio del famoso Prélude, aria et final di Franck, troviamo composizioni di autori quasi del tutto sconosciuti come Charles Borde e Marie Jaëll.
La grande tradizione delle liriche da camera, infine, occupa il decimo e ultimo Cd, nel quale viene proposta una ricchissima antologia di lavori di compositori più o meno famosi. Sebbene non monografico, questo Cd è sicuramente quello che propone i brani nella loro interezza anche perché appartenenti a un genere che non ha scansioni in vari movimenti, ma trova la sua compiutezza nell’effusione lirica che si realizza in un istante.
Ottimo prodotto, questo cofanetto è la testimonianza di un’attività, veramente meritoria per la musica, da parte del Palazzetto Bru Zane che ha consentito di portare alla conoscenza di un largo pubblico lavori e compositori quasi del tutto sconosciuti. Nel complimentarci per i successi ottenuti dagli studiosi, non possiamo far altro che augurarci che quest’attività possa continuare con nuove interessanti scoperte. Non possiamo non concludere senza una piccola nota nei confronti degli artisti, di altissimo livello, che hanno lavorato alla realizzazione dei singoli Cd e di cui non si faranno i nomi per evitare di dimenticarne qualcuno.
L’Opera e la musica in tv a gennaio
RAI 1 – 1 gennaio ore 12.20 / RAI 5 – ore 18.37
CONERTO DI CAPODANNO DAL TEATRO LA FENICE VENEZIA
(seconda parte)
Direttore Myung-Whun Chung
Con:Francesca Dotto, Francesco Demuro, Luca Salsi, Valeria Girardello
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice di Venezia
Coreografie Giuseppe Picone ed eseguite dalle étoiles del Teatro Boloj di Mosca Olga Smirnova e Jacopo Tissi accanto al Corpo di Ballo del Teatro di San Carlo di Napoli
In programma: G. Verdi Il trovatore «Chi del gitano i giorni abbella?» G. Puccini La bohème «Quando men vo» N. Rota Amarcord suite G. Verdi Rigoletto «Cortigiani vil razza dannata» J. Offenbach Orfeo allinferno Can can G. Puccini La bohème «O Mimì tu più non torni» G. Verdi La traviata «Sempre libera deggio» G. Puccini Turandot «Nessun dorma» G. Verdi Rigoletto «Bella figlia dellamore» G. Verdi Nabucco «Va pensiero sullali dorate» G. Puccini Turandot «O padre augusto» G. Verdi La traviata «Libiam ne lieti calici»
Venezia, 2019
RAI 2 – 1 gennaio – ore 21.15 / RAI 5 – ore 21.15
CONCERTO DI CAPODANNO DA VIENNA
Direttore Andris Nelsons
Coreografie José Carlos Martinez
Wiener Philharmoniker& Wiener Staatsoper ballet
Musiche di Johann Strauss padre, Johann Strauss jr, Josef Strauss ed Eduard Strauss cui si aggiungono alcune Contraddanze di Beethoven, pagine di Ziehrer, Suppé, Hellmesberger, Lumbye di Johann Strauss jr., Josef Strauss, Johann Strauss padre, Eduard Strauss…
Vienna, 2020
Giovedì 2 gennaio – ore 21.15 /Sabato 4 gennaio – ore 10.40 / Domenica 5 gennaio – ore 18.27
“IL FLAUTO MAGICO”
Musica Wolfgang Amadeus Mozart
Direttore Ryan Wigglesworth
Regia Barbe & Doucet
Coro del Festival di Glyndebourne,Orchestra of the Age of Enlightment
Con: Caroline Wettergreen, Sofia Fomina, Björn Bürger, David Portillo, Brindley Sherratt…
Glyndebourne, 2019
Sabato 5 gennaio – ore 19.26 – 2011
Grandi interpreti – Arturo Benedetti Michelangeli
ep. 1 e 2
In occasione del centenario della nascita di Arturo Benedetti Michelangeli, Rai5 ricorda il sommo pianista bresciano riproponendo le otto puntate di ‘Grandi interpreti'” a lui dedicate, condotte dal musicologo Roman Vlad nel 1987. In programma brani di Galuppi, Scarlatti, Beethoven.
Sabato 4 gennaio – ore 23.45
Specchio sonoro – Compositori del ‘900: Sergei Prokofiev
In occasione del centenario della nascita di Roman Vlad, Rai5 ricorda il compositore, musicologo e pianista rumeno naturalizzato italiano riproponendo alcune puntate di ‘Specchio sonoro’, programma da lui ideato e condotto nel 1964, dedicato ai principali autori del ‘900.
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Pëtr Il’ič Čajkovskij (1840-1893): “Lo Schiaccianoci” (versione per ensemble di ottoni)
arrangiamento per ensemble di ottoni di Matthew Night e Simon Cox. Testo di Matthew Night basato sull’adattamento di Alexandre Dumas del racconto, Schiaccianoci e il re dei topi di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann. Derek Jacobi (narrante). Septura: Huw Morgan (tromba in mi bemolle), Alan Thomas, Simon Cox (trombe un si bemolle), Matthew Gee, Matthew Knight (tromboni), Daniel West (trombone basso), Peter Smith (Tuba) e Scott Lumsdaine (percussioni). Registrazione: 31 maggio-2 giugno 2019 presso St Jude’s Church, Hampstead Garden Suburb, Londra. T. Time: 65′ 24″. 1 CD Naxos 8.574157
Balletto di Natale per eccellenza, Lo Schiaccianoci di Čajkovskij è il protagonista di un’originale proposta discografica dell’etichetta Naxos che ha pubblicato l’incisione di una versione per ensemble di ottoni nella quale i brani sono collegati da testi, scritti da Matthew Knight, che illustrano la fiaba e rendono questo prodotto fruibile anche per un pubblico di bambini. A prima vista può apparire singolare l’organico, costituito da tre trombe, tre tromboni, da una tuba e dalle percussioni, ma le ensemble di ottoni, in realtà, sono tipiche delle feste natalizie soprattutto nei paesi del Nord Europa. Per questa ragione, questa scelta, nei confronti della quale non nascondo di aver avuto un certo scetticismo in quanto ritenevo impossibile riprodurre la bellezza e la ricchezza della partitura di Čajkovskij con un’ensemble sifffata, appare in realtà convincente, anche se poco varia, e, comunque, capace di conferire alla musica di questo balletto un colore particolare, peraltro, perfettamente intonato all’atmosfera natalizia. La trascrizione, realizzata a quattro mani dallo stesso Knight e da Simon Cox, nonostante qualche taglio e l’inevitabile perdita dei colori della ricca tavolozza orchestrale utilizzata da Čajkovskij, è di ottima fattura ed esalta le capacità virtuosistiche degli esecutori: Huw Morgan (tromba in mi bemolle), Alan Thomas, Simon Cox (trombe un si bemolle) Matthew Gee, Matthew Knight (tromboni), Daniel West (trombone basso), Peter Smith (Tuba) e Scott Lumsdaine (percussioni), tutti molto bravi sia nei passi tecnicamente più impervi, dove riescono a sostenere tempi piuttosto rapidi senza mai mancare in precisione ritmica e chiarezza di suono, sia nei momenti di maggiore lirismo come il celeberrimo Valzer dei fiori o il finale del primo atto. Questo Cd, nel quale i testi sono ben interpretati dal grande attore inglese Derek Jacobi, è un prodotto originale destinato a un pubblico di grandi e piccini.
Napoli, Basilica di San Francesco di Paola: Concerto dell’ensemble “Le Musiche da Camera”
Napoli, Basilica Reale e Pontificia di San Francesco di Paola
Ensemble vocale – strumentale “Le Musiche da Camera”
Soprano maschile Francesco Divito
Mezzosoprano Rosa Montano
Violino di concerto Egidio Mastrominico
Violino barocco Giovanni Rota
Traversiere Renata Cataldi
Basso continuo: violoncello Leonardo Massa, clavicembalo Debora Capitanio
Carmine Giordano: “Sperno Grecem Quaero Natum”, duetto dal Mottetto in Pastorale a due voci ed archi; Anonimo Napoletano: Pastorale II a due violini e basso continuo; Gennaro Manna: “In Nativitate Domini”, Lectio prima Secondo Notturno a voce sola di soprano con violini; “In Nativitate Domini”, Lectio seconda Secondo Notturno a voce sola di alto con violini; Antonio Servillo: Concerto per flauto traverso, violini e basso; Nicola Sabatino: “Te Deum” a due voci con strumenti.
Napoli, 28 dicembre 2019
Nella sagrestia papale della basilica di San Francesco di Paola di Napoli, l’ensemble di strumenti d’epoca Le Musiche da Camera, diretto dal violino di concerto Egidio Mastrominico, ha eseguito un programma di antica ed inedita bellezza, per il concerto In Nativitate Domini – Musiche per il Santo Natale nella Napoli del ‘700. La longeva formazione vocale e strumentale si è cimentata nell’esecuzione di rare composizioni sacre della Scuola napoletana settecentesca, col soprano Francesco Divito e col mezzosoprano Rosa Montano. Il soprano, con umana espressività, morbidezza del registro acuto e gradevolezza della linea di canto, ha in particolare brillato nella Lectio prima Secondo Notturno a voce sola di soprano di Gennaro Manna, e nel Te Deum a due voci di Nicola Sabatino, sfoggiando anche la naturale ed elegante propensione al canto virtuosistico, scevro d’inutili appariscenze. La sicurezza tecnica è la chiave di volta d’una esecuzione tutta orientata all’omogeneità dei registri vocali e ad un incisivo senso di fraseggio. Voce caratterizzata in funzione dell’aspetto “affettivo”, soprattutto nelle cadenze e nelle diminuzioni, senza scadere nella retorica musicale d’un Settecento di maniera. Una calda spiritualità affinata anche dall’ensemble nel discorso strettamente strumentale, timbricamente ricco e assai duttile, come nell’anonimo Pastorale II; uno strumentalismo finemente architettato, sottratto ad una fruizione superficiale o distratta, e scandagliato in ogni dettaglio attraverso il recupero della prassi esecutiva settecentesca. Accativante spigliatezza ritmica ed abbandoni meditativi hanno interessato anche il Concerto per flauto traverso, violini e basso di Antonio Servillo, nella sua prima esecuzione in tempi moderni, colla parte del traversiere significativamente eseguita dalla curatrice medesima della trascrizione della composizione, la musicologa Renata Cataldi; ella è riuscita a sottolineare quella duttilità esecutiva e virtuosistica che rende lo strumento particolarmente incline ad evocare ed imitare gli accenti della musica vocale.
Articolato in tre movimenti (allegretto, largo cantabile, allegro) carichi di suggestioni melodiche, si tratta d’un concerto inedito in do maggiore d’un autore napoletano della cui biografia si sta occupando la stessa Cataldi, impegnata già da qualche anno nella realizzazione di un ampio progetto di ricerca e di pubblicazione di musiche inedite per flauto in prima edizione moderna per la casa editrice Ut Orpheus, ampliando ed arricchendo l’interessante repertorio flautistico napoletano barocco. Francesco Divito, nel duetto proveniente dal Mottetto in Pastorale a due voci ed archi di Carmine Giordano e nel Te Deum, è stato correttamente affiancato dal mezzosoprano Rosa Montano, che ha saputo trarre benefici anche dalla parte solistica, superbamente caratterizzata, della Lectio seconda Secondo Notturno di Gennaro Manna; affrontata dalla cantante con voce tecnicamente preparata, con il gusto, musicalità, proprietà stilistica e in piena sintonia con l’accompagnamento strumentale. Il concerto ha chiuso la rassegna di Convivio Armonico 2019, nella sua XVIII edizione, curata dall’associazione Area Arte, importante centro di ricerca che si propone la riscoperta, la tutela e la valorizzazione di composizioni inedite o poco conosciute di compositori napoletani dei secoli XVII e XVIII. Lodevole iniziativa quella di riconsegnare ai Napoletani ciò che è stato il loro trionfo: la musica.
Intervista al violinista Tomás Cotik
Vincitore del primo primo al National Broadcast Competition nel 1997 e del Government of Canada Award dal 2003 al 2005, Tomás Cotik ha all’attivo una notevole produzione discografica, consistente in più di una quindicina di Cd pubblicati da importanti etichette come Gramophone, American Record Guide, Fafare, Scherzo, Downbeat e Music Web. Il suo vasto repertorio va da Schubert a Mozart, da Piazzolla a Bach del quale ha inciso recentemente per l’etichetta Centaur le Sonate e partite per violino solo. Oggi lo abbiamo incontrato per questa intervista.
Maestro Cotik, può raccontarci come è nata la sua passione per la musica? …e per il violino?
Quando avevo 5 anni sentii a casa, a Buenos Aires, in Argentina un vinile dei Solisti di Zagabria. La musica e il suono degli archi, e in particolare il suono del violino in quei lavori di Rossini, Boccherini, e Haydn mi commossero al punto tale da far scorrere le lacrime sul mio viso. Immediatamente chiesi ai miei genitori di suonare il violino. In apparenza era una specie di moda iniziare i bambini alla musica con il flauto dolce. In realtà non fu facile, e per tre anni ho dovuto insistere nei confronti dei miei genitori, che provengono da studi scientifici, che in realtà volevo studiare il violino.
Con il passare degli anni, ci sono molti altri aspetti che apprezzo della musica, come quel primitivo, immediato legame, quel potere delle musica di comunicare e commuovere per mezzo del suono, che continua ad essere essenziale perché io faccia ciò che faccio.
Lei vanta un’intensa attività concertistica in tutto il mondo. C’è un’opera o un autore che ama particolarmente eseguire?
Colloco in cima alla lista delle mie preferenze la musica della prima Scuola di Vienna e del primo Romanticismo. Mi sono anche concentrato su un ampio spettro di musica che varia dalle esecuzioni storicamente fedeli del Barocco ai lavori del mio compatriota Piazzolla. La mia discografia riflette quel quid della musica che io sento in profonda connessione con Schubert, Mozart, Bach e Piazzolla. Detto questo, mi piacciano le sfide e studiare nuovi programmi; usufruisco anche di richieste che mi portano a esplorare pezzi che avrei scelto necessariamente da solo. I tal senso sono venute decine di prime esecuzioni di autori contemporanei e collaborazioni nel genere del pop che includevano registrazioni con Natalie Cole, Gloria Estefan, Barry Gibb, George Benson, Smokey Robinson, Donna Summer, Bobby McFerrin e Chick Corea.
… e un compositore la cui musica sente lontana dal suo modo di sentire?
Certamente ci sono compositori che al momento sento lontani, ma esito a dirne I nomi. Il mio apprezzamento e la comprensione dell’arte cambia nel corso del tempo.
Tra tutti i suoi cd ce n’è uno al quale è rimasto particolarmente legato dal punto di vista emotivo? Se sì, perché?
Il mio primo album, pubblicato nel 2012, contenente la Fantasia, Rondò e il Duo in la maggiore di Schubert, è per me molto significativo. È stato un sogno lungamente in sospeso per me registrare quell’album. La musica in sé è sublime. Potrebbe in certi momenti suonare facile, eppure è estremamente impegnativa. Inoltre, essendo anche il produttore, ho dovuto risolvere molte questioni logistiche per la prima volta e ho imparato moltissimo. Credo di aver avuto il mio primo capello bianco durante quella registrazione. Nello stesso tempo, tutto il processo è venuto molto naturale e la positiva accoglienza dell’incisione mi ha incoraggiato a proseguire con molti altri progetti come le sonate per violino di Mozart e ora le sonate e partite di Bach.
Ci può descrivere la sua giornata normale? Quante ore di tempo dedica allo studio?
Metto passione in ciò che faccio e godo nel fare il mio lavoro, esercitarmi, suonare, insegnare ai miei studenti della Portland State University o scrivere articoli. Tutte quelle cose sono correlate e mi aiutano a crescere come musicista. Non è un lavoro d’ufficio. Non finisce mai.
Veniamo al suo doppio album dedicato a Bach. Ci può parlare delle difficoltà tecniche ed espressive che pongono questi lavori di Bach?
Questi lavori sono ironici, sono stati incisi da tutti i più grandi artisti, e sono notoriamente molti impegnativi dal punto di vista tecnico e musicale. Per la loro natura di essere per violino solo, non c’è nulla di nascosto. Eppure la maggiore difficoltà, credo, risiede nell’interpretazione; come trovare la rotta giusta nel conflitto e nelle contraddizioni tra opposti andamenti e tradizioni nell’interpretazione di Bach. Di recente ho scritto un lungo articolo su quell’importante questione e mi piacerebbe condividere solo qualche paragrafo qui:
“In quanto musicista, sento la responsabilità di cercare di capire e continuare a imparare cose sull’autore e sulla musica che eseguo. Quando è toccato a Bach, parte di questa curiosità per me significò informarmi su cosa ci sembra di conoscere sulla prassi esecutiva storica, anche solo per ispirare la mia interpretazione o condividere le informazioni come i miei studenti e scatenare la loro curiosità nel momento in cui loro sviluppano le interpretazioni.”
E tuttavia, cercare di trovare dei consigli per i miei studenti è terribilmente difficoltoso. Bach non scrisse nulla su come eseguire i suoi lavori. Dobbiamo affidarci ai suoi contemporanei, amici, parenti e studenti per tentare di comprendere il significato dei simboli e delle questioni tecniche e stilistiche in questi lavori, al fine di catturare l’intenzione del compositore e influenzare l’esecuzione della musica. Ogni esecuzione, allora come oggi, perfino dello stesso esecutore, sarebbe, ed è, ogni volta, differente. Ci sono molte cose che non conosco… e più leggo, più “So di non sapere”.
La frase di Socrate, per quanto cliché, potrebbe davvero trovare qui la sua applicazione, ed eppure, ironicamente, in questo contesto, non c’è alcuna registrazione nella quale Socrate in persona la dica. Socrate non produsse alcuno scritto. È conosciuto principalmente attraverso i racconti di scrittori classici dopo la sua vita.
Ricostruire un’immagine storica e filologica basata sulla diversa e qualche volta contraddittoria natura delle fonti esistenti nella sua vita è il “Problema Socratico” che noi incontriamo anche nell’interpretazione di Bach. Dobbiamo accettare che ci sono molte congetture; non sappiamo esattamente se i trattati vanno applicati in modo specifico alla musica di Bach in generale o a questi lavori in particolare. La percezione degli autori è soggettiva e condizionata dal tempo e dal luogo. Barocco e stile Galante si sovrappongono nel tempo, in più ci sono varianti francesi, italiane e tedesche. L’interpretazione dei trattati da parte nostra è anche soggettiva. La maggior parte delle nostre interpretazioni e ragionamenti potrebbe in ultima analisi essere frutto del nostro gusto personale.
Andando sul personale, che rapporto ha con la spiritualità?
Questa è una buona e difficile domanda! Il termine spiritualità in sé è stato sviluppato e ha esteso il suo significato nel tempo. In alcune delle sue connotazioni non vorrei fare riferimento ad esso e ammetto che non mi piace parlarne.
Tuttavia, quando ho ricordato in precedenza il modo in cui la mia passione per la musica ha avuto origine, potrebbe essere evidente che alcuni degli aspetti più importanti della vita e dell’esperienza trascendono la visione materialista del mondo.
La musica di Bach è un preciso esempio di arte che cerca probabilmente un significato e un’esperienza universali, qualcosa che tocca tutti noi. E anche nella musica di Bach sento la nozione della trascendenza.Per me, l’arte, suonare, insegnare, registrare sono tentativi di trascendere e di trovare dei legami. Questo viaggio di Bach, stranamente, mi ha fatto pensare a filosofie lontane e alla trascendenza dell’umanità.
È molto spesso fuori casa per lavoro? C’è qualcosa che Le manca della sua casa, quando è lontano?
Mi manca la mia famiglia e la routine, quando viaggio molto. Viaggiare mi dà l’opportunità di suonare di volta in volta per un pubblico diverso, cosa che mi piace molto. In quel senso le incisioni sono un bel completamento nei termini di essere capace di raggiungere un pubblico lontano e ampio.
C’è qualcosa che le manca in generale nella sua vita?
Certamente, se non dovessi andare sempre di corsa. C’è molto da fare se ci fosse solo più tempo.
Si ricorda del primo disco da lei acquistato?
Non ricordo. Ma ricordo di essere cresciuto appassionandomi, in periodo diversi, alle registrazioni di Glenn Gould, Maria Callas, Carlo Kleiber e Heifetz.
Ha un sogno nel cassetto, dal punto di vista professionale, che le piacerebbe realizzare?
Deve essere solo uno? Si realizzerà ancora se lo dico? Lasciatemi solo dire che spero di crescere in modo organico nei termini di ciò che già sto facendo. Suonare in nuovi posti, instaurare nuove collaborazioni con musicisti ispirati, fare nuove incisioni e aiutare maggiormente i miei studenti ad avvicinarsi a realizzare i loro sogni.
Prossimi impegni importanti?
Attualmente sto lavorando a nuovi arrangiamenti della musica di Astor Piazzolla e non vedo l’ora, questa estate, di suonare e insegnare al Round Top Music Festival e al Miami Classical Music Festival.Maestro Cotik, could you tell us how did your passion for music originate? …and what about the violin one?
When I was 5 years old I heard at home in Buenos Aires, Argentina, a vinyl from The Soloists of Zagreb. The music, and the sound of the string instruments, and in particular the sound of the violin in those works by Rossini, Boccherini and Haydn moved me in a way that made tears came down my face. I right away asked my parents to play the violin. It apparently was a kind of fashion to start children in music with the recorder. I really didn’t like it, and it took me 3 years of insisting my parents, who comes from the sciences, that that I really wanted to learn the violin.
Fast forward many years, there are many other layers that I appreciate in music, yet that primal imminent connection, that power of music to communicate and touch through sound, keeps being essential to why I do what I do.
You have performed countless concerts worldwide. Is there a work or an author that you like to perform in particular?
I place an emphasis on the music of the first Viennese school and early Romantic music. I’ve also focused on a wide spectrum of music ranging from historically informed baroque performances to the works of my countryman Piazzolla. My discography reflects some of the music I feel a deep connection to, Schubert, Mozart, Bach and Piazzolla. Having said so, I like challenges and learning new programs; I also enjoy requests that take me to explore pieces I wouldn’t have necessarily chosen myself. Along those lines come dozens of premieres by contemporary composers and pop music collaborations that included recordings with Natalie Cole, Gloria Estefan, Barry Gibb, George Benson, Smokey Robinson, Donna Summer, Bobby McFerrin, and Chick Corea.
…and a composer that you just can’t relate to?
Of course there are composers that I momentarily relate less to, but I am hesitant to say names. My appreciation and understanding of art changes through time.
Among all your album, is there one to which you are particularly linked to, from an emotional point of view? If yes, why?
My very first album, released in 2012, containing Schubert’s Fantasy, Rondo and Duo in A major is very meaningful to me. It was a long pending dream for me to record that album. The music itself is sublime. It might at moments sound deceptively easy, yet it is extremely challenging. Furthermore, as the producer, I had to solve so many logistical issues for the first time and learned so much. I believe I got my first white hair during that recording. At the same time, all the process fell very natural and the recording’s positive reception encouraged me to follow many other ambitious recording projects like the 4 CD set of Mozart’s Violin Sonatas and now Bach’s Sonatas and Partitas.
Could you describe us a day in your life? How much time do you devote to studying?
I am passionate about what I do and I do enjoy my work a lot, be it practicing, performing, teaching my students at Portland State University or writing articles. All those are related and help me grow as a musician. It’s not a 9 to 5 job. It never ends.
Let’s talk about your double Bach album. Could you tell us about the technical and expressive difficulties implied in these Bach compositions?
These works are iconic, have been recorded by every major artist, and are famously very challenging technically and musically. Through its nature of being for solo violin, there is nowhere to ‘hide’. Yet the major difficulty I believe, relies in the interpretation; how to navigate the conflict and contradictions between the opposing trends and traditions in Bach interpretation. I recently wrote a long article about that very issue. And I would like to share just a few paragraphs here:
As a musician, I feel the responsibility to try to understand and keep learning about the music and the composer I am performing. When it came to Bach, part of this curiosity for me meant informing myself about what we seem to know in regards to historical performance practice, be it only to inspire my interpretation or to share the information with my students and spark their curiosity as they develop their own interpretations.
And yet, trying to come up with any advice for my students is terribly difficult. Bach did not write anything about how to perform his own works. We need to rely on his contemporaries, friends, relatives, and students to try to understand the significance of the symbols and the technical and stylistic issues in these works with the goal of capturing the composer’s intention and affect of the music. Every performance back then and today, even by the same performer, would be, and is, different each time. There are so many things that I don’t know…and the more I read, the more “I know that I know nothing.”
Socrates’s phrase, however cliché, genuinely might apply here, and yet, ironically, in this context, Socrates himself was never recorded saying it. Socrates made no writings. He is known mainly through the accounts of Classical writers after his lifetime.
Reconstructing a historical and philosophical image based on the variable and sometimes contradictory nature of the existing sources on his life is the “Socratic Problem” we also encounter in Bach interpretation. We have to accept that there is a lot of guesswork; we don’t know exactly if the treatises apply specifically to Bach’s music as a whole or to these works in particular. The perception of the authors is subjective and conditioned by time and location. Baroque and Galant styles overlap in time, plus there were French, Italian, and German variants. The interpretation of the treatise writings by us is also subjective. Most of our interpretation and reasoning might ultimately be personal taste.
What’s your relation with spirituality?
That’s a very good and difficult question! The term ‘spirituality’ itself has developed and expanded over time. In some of its connotations I would not relate to it and I admit that I don’t like speaking about it. Yet, as I mentioned earlier how my passion for music originated, it might be evident that I acknowledge that some of the most important aspects in life and the human experience go beyond a materialist view of the world.
The music of Bach is a precise example of art possibly seeking a universal significance and experience, something that touch us all. And also in Bach’s music I sense the notion of transcendence.
For me, art, playing music, teaching, recording are attempts to transcend and connect. This Bach journey, interestingly, enough made me think about far out philosophies and the transcendence of humanity.
Are you often away from home? What do you miss the most when you are far from home?
I do miss my family and routine when I travel a lot. Traveling gives me the opportunity to play for different audiences, which I do enjoy a lot. In that sense recordings are a nice complement in terms of being able to reach audiences far and wide.
Is there anything missing in your life, in general?
Of course, otherwise I wouldn’t be running. There’s so much to do and only so much time.
Do you remember the first record you have ever bought?
I don’t remember. But I remember growing up having periods of fascination with the recordings of Glenn Gould, Maria Callas, Carlos Kleiber and Heifetz.
Career-wise, do you have a dream that you would like to see coming true?
Does it need to be only one? Will it still happen if I say it? Let me just say that I hope to continue growing organically in terms of what I am already doing. Performing in new venues, forging new collaborations with inspiring musicians, doing new recordings, and helping more students get closer to their own dreams.
What’s in store for you professionally?
I am currently working on some new arrangements of music by Astor Piazzolla and looking forward to this summer to play and teach at the Round Top Music Festival and the Miami Classical Music Festival.
Tomás Cotik: “Sonate e partite per violino solo” (1720) di Johann Sebastian Bach
Cd 1: Sonata per violino n. 1 in sol minore, BWV 1001(Adagio- Fuga. Allegro-Siciliana-Presto); Partita per violino n. 1 in si minore, BWV 1002 (Allemanda-Double-Corrente-Double. Presto- Sarabande-Double-Tempo di Borèa-Double); Sonata per violino n. 2 in la minore, BWV 1003 (Grave-Fuga-Andante-Allegro). T. Time: 57′ 43″
Cd 2: Partita per violino n. 2 in re minore BWV, 1004 (Allemanda-Corrente-Sarabanda-Giga-Ciaccona); Sonata per violino n. 3 in do maggiore, BWV 1005 (Adagio-Fuga-Largo-Allegro assai); Partita per violino n. 3 in mi maggiore, BWV 1006 (Preludio-Loure-Gavotte en Rondeau-Menuet I-Menuet II-Bourrée-Gigue). T. Time: 60’50”. Tomás Cotik (Violino). Registrazione: 2019 Portland State University, Portland, Oregon, USA. T. Time: 118′ 33″ 2CD Centaur Records CRC 3755/3756
«Uno dei maggiori violinisti mi disse una volta che non aveva mai visto nulla di più perfetto per diventare un buon violinista, né avrebbe potuto consigliare nulla di più utile per l’insegnamento, di questi Soli per violino senza basso»
Così Carl Philipp Emanuel Bach si esprimeva in una lettera del 1774 a Johann Nikolaus Forkel, musicologo fervente ammiratore di Johann Sebastian Bach, sulle Sonate e partite per violino solo del padre. Composte quando Bach era Kappelmeister alla corte di Cöthen, queste sonate e partite, chiamate nel manoscritto «Sei solo / à / Violino / senza / Basso / accompagnato. /Libro primo / da Joh.Seb.Bach / ao. 1720», presentano una scrittura tecnicamente strabiliante per l’epoca dal momento che al violino, considerato fino a quel momento uno strumento solista che ha bisogno dell’accompagnamento, è dato dal compositore di Eisenach uno status di completezza che gli permette di sostenere anche strutture polifoniche come le fughe delle Sonate. Per questa ragione quest’opera, che sconcertò i violinisti contemporanei per la scrittura ardita, costituisce ancora oggi un campo di prova per ogni virtuoso.
Quest’incisione, realizzata dal violinista Tomás Cotik per l’etichetta Centaur, si impone immediatamente come un’edizione di ottima qualità. Dotato di una tecnica raffinata, Cotik affronta questi capolavori del genio di Bach con profondo senso dello stile grazie ad un’attenzione al fraseggio realizzato secondo i principi peculiari del Barocco e con una visione del ritmo, non metronomica, ma tesa ad accentuare i suoni di maggiore importanza per lo sviluppo del discorso sui quali l’artista indugia sempre con finezza. La sua raffinata tecnica consente a Cotik, inoltre, di metter in evidenza le strutture polifoniche delle fughe, nelle quali il soggetto e il controsoggetto, in situazioni di doppie corde, sono sempre ben delineati, mentre la sua espressiva cavata regala momenti di intenso lirismo negli Adagi della prima e della terza sonata e nel Grave. Tra le pagine più belle di questa incisione si segnala la bellissima e famosissima, anche per la trascrizione pianistica di Busoni, ciaccona della seconda partita e la fuga della terza sonata, eseguite da Cotik in modo da esaltare, laddove è richiesto, la complessa scrittura polifonica di cui sono dotate. Brillanti e caratterizzati da una grande unguaglianza ritmica sono, infine, tutte le danze rapide delle partite e gli ultimi movimenti delle sonate.